POESIA A CONFRONTO: I defunti

POESIA A CONFRONTO: I defunti

 
 

POESIA A CONFRONTO: I defunti
SERENI, RABONI, CATTAFI, CARIFI

 
 

Il ricordo e la commemorazione dei defunti fanno da sempre parte della nostra condizione di uomini; il culto dei morti, come testimoniato da tutti gli studi storici ed etnologici, ha sancito uno dei passaggi fondamentali nel processo evolutivo e culturale dell’umanità. Limitandoci alla sfera più propriamente privata, l’assenza delle persone care, la loro scomparsa definitiva dalla vita, lascia solchi profondi, insanabile senso della perdita: può la poesia colmare questa distanza, mantenere vivo un contatto, anche flebile, fra chi rimane e chi è scomparso?

Di una spiaggia deserta ci parla Vittorio Sereni nella sua poesia in cui tutto parte con un annuncio surreale fatto da “un ricevitore” che sentenzia l’ineluttabilità del ritorno: “Non torneranno più”. Ma questo punto di partenza pare immediatamente smentito da segni di luce, “toppe solari” prima e subito dopo “toppe / di inesistenza” che si stagliano sull’orizzonte e che sanciscono che il dialogo fra le parti è solo in apparenza interrotto: quel “Parleranno” in chiusa ha un valore quasi profetico, ha tutta la forza di quel “mare” che “investe” della sua inestinta vitalità l’autore dei versi e, per il suo tramite, tutti i suoi lettori.

In una poesia che brilla per l’estrema concisione e densità del significato Giovanni Raboni ci parla della “comunione dei vivi e dei morti”, una verità della quale un cuore autentico non può fare a meno. C’è un tratto inquietante, quasi gotico, nell’incipit: il volto che si insanguina, la mano che implora ascolto, entrambi segni rivelatori di una fine che non si può risolvere in pura biologia, in dato meccanicistico, ma chiede un’altra chiave interpretativa, uno stacco cognitivo e una ragione del cuore che la sola parola poetica è in grado di offrire.

Per Cattafi i morti sono “tenebra inclusa nella luce”, sembrano ancora osservare in tralice i vivi (“guatano”, così dantesco), mescolati ancora con i vivi che non possono non avere commercio con loro (“neri mercati”), stringere le loro mani ormai inanimate, fredde. C’è un sostanziale dubbio ontologico che permea questi versi, il senso di una fede tentata e non risolta che oscilla fra “patti menzogneri” e “false preghiere”. Qui il dialogo, la comunione fra i vivi è i morti, resta un’ipotesi improbabile; la luce gotica e inquietante splende intatta, irrisolta verrebbe da dire.

Infine Carifi: qui a prendere la parola è una voce anonima che però fa riferimento a un imprecisato e insieme determinatissimo “Mario”, una voce che sillaba da un altrove dove tutto è “freddo”, solo ricordo. La prospettiva del ritorno, certo auspicata, è subito stroncata sul suo nascere: non si è più uomini, ma “bambole sfatte” o “angeli sottili”, comunque presenze equivoche che solo in questo “angolo buio” possono durare. Rimane solo un “brivido forte” a congiungere regioni incapaci di creare un istmo stabile: tutto è distacco, abbandono (“e questa panchina, questa panchina abbandonata…”)

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
VITTORIO SERENI
(da Gli strumenti umani – Einaudi, 1965)
 
LA SPIAGGIA
 
Sono andati via tutti –
Blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa: – Non torneranno più –
 
Ma oggi
Su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
Quelle toppe solari… Segnali
Di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.
 
I morti non è quel che di giorno
In giorno va sprecato, ma quelle
Toppe di inesistenza, calce o cenere
Pronte a farsi movimento e luce.
Non
Dubitare, – m’investe della sua forza il mare –
Parleranno.
 
 
 
 
 
 
GIOVANNI RABONI
(Da Quare tristis – Mondadori, 1998)
 
Così a volte succede che nel buio
si insanguini un volto, una mano
ci implori – così c’è
chi ignora e chi invece ha nel cuore
la comunione dei vivi e dei morti.
 
 
 
 
 
 
BARTOLO CATTAFI
(da Occhio e oggetto precisi, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1999)
 
I MORTI
 
I morti ci sono addosso
sparsi qui attorno come una pioggia
muschio dietro alberi muri e macigni
ci guatano per quel tanto di confuso
di tenebra inclusa nella luce
di luce in paludi appiccicose
che il transfuga ricorda a mezzagamba
cose egregie sbatterono
impiccate agli alberi di giuda
e le mie mani nei neri mercati
commerciano con mani di defunti
stringono patti menzogneri
si congiungono in false preghiere.
 
 
 
 
 
 
ROBERTO CARIFI
(Da Nel ferro dei balocchi. Poesie 1983-2000 – Crocetti, 2008)
 
“C’è freddo, hai detto, guardo le vecchie foto
a volte rivedo Mario ma non so la strada,
perché vi chiamo in un brivido forte
e questa panchina, questa panchina abbandonata…
hanno acceso le luci quelli che arano
nel nostro angolo buio,
vorrei tornare ma siamo bambole sfatte,
non so, come degli angeli sottili,
soltanto qui duriamo.”