Periferie, Carlo Selan (Campanotto 2016)
Non stiamo vivendo un periodo di crisi, ma di decadenza. Decadenza culturale, economica, politica, sociale, e per avvicinarci al nostro scritto anche urbanistica. Non credo sia un caso, infatti, se molte raccolte di poesia contengono riferimenti a realtà suburbane e periferiche, luoghi tradizionalmente deputati a evocare disagio, abbandono, trascuratezza, mal di vivere, ribellione, contestazione dello status quo e dei valori costituiti e eventualmente (ma non obbligatoriamente) voglia di riscatto. La scriteriata speculazione edilizia che ha ricoperto l’Italia di palazzine e centri commerciali ha poi generalizzato e espanso il concetto di “perfieria”, a discapito ,ad esempio, della campagna, ma anche della vivibilità delle stesse città, più o meno grandi e più o meno caratterizzate da centri storici.
Periferie è il titolo della prima raccolta di Carlo Selan, udinese classe 1996, pubblicata nel 2016 da Campanotto: una breve silloge che contiene 28 poesie introdotte da una prosa che in qualche modo rivela la fonte ispirativa e tematica di Selan: una gioventù spersa, che si sente detestata dalla crisi, che all’ombra del castello di Udine stende la propria anima “[…] per chilometri e chilometri, cantieri in costruzione e lontani disastri, antiche catastrofi […]”, che non sa cosa fare della e nella vita ma che, in ultima istanza, chiede “[…]solo amore“.
Siamo di fronte al classico (inteso come genere letterario ben categorizzato) disagio giovanile? Non esattamente.
Le poesie di Selan si snodano attraverso la messa in scena di due interlocutori: un “tu”,che è una “lei”, variamente definita e cercata ostinatamente anche nello squallore degli scenari descritti (“Sei la periferia, il volto freddo del dolore[…]”, “Sei questo vivere ferito e stanco“, “Eri in quel tremulo sapersi dire[…]”, “[…]saresti il gesto, la mia distanza, i cieli saturi sopra i parcheggi , frasi distrutte / saresti il ferro, lo stridire, il baciarsi inutile dietro alla Coop[…]”); un “io”, il poeta stesso, dipinto come una sorta di pariah incompreso, rifiutato, in bilico tra depressione e rabbia rancorosa (“[…]diciotto anni / che non significano nulla[…]”, “[…]ancora odio me stesso![…]” “[…]è colpa mia se alle donne non piacciono i ragazzi problematici!” “[…]Mi hanno detto / che non so scrivere: / andate a farvi fottere!” “[…]smetterò anche di scrivervi / per non feririvi“, “[…]la consistenza / del mio dolore e perché / nessuno risponde” ). Occasionalmente c’è anche un “voi” e un “noi”, chiamati in causa allo scopo di inveirci contro (“Dovete morire, smetterla / di pontificare![…]”) o condividere radicali riflessioni (“Non mentiamoci / come obesi affamati di abbracci: / i poeti sono morti / morti!“). Un discorso poetico tra pochi, insomma, a tratti anche ombelicale, come è ovvio che sia per un giovane esordiente. L’orizzonte poetico è, per dichiarazione personalmente fattami dallo stesso Selan, quello della letteratura Beat (Kerouac in particolare) e, anche se in misura a mio avviso più marginale, di Alberto “Dubito” Feltrin, slammer morto giovanissimo nel 2013: è in questo bacino che Selan trova parte della sua ricerca poetica, ammirato dall’ uso del linguaggio “non poetico” usato da questi autori, ma che nel caso del Nostro si risolve in qualche turpiloquio o in ritratti underground di tanto in tanto, dando più il sapore di un omaggio che di una vera necessità strutturale ed espressiva.
O forse no: proprio dalle poesie più “suburbane” Selan fa emergere a sorpresa versi di felice bellezza, che già tracciano una voce personale e libera da rimandi più o meno palesi o ingenui: “è questa la mia bellezza, tu / che cammini sugli spigoli / di un marciapiede”, “Eri la sera in cui non sei arrivata / una sera / che era solo bellissima”. Versi come questi arricchiscono quell’orizzonte poetico definito poco fa, rivelando una certa familiarità anche con la poesia contemporanea italiana (quella dei poeti indicati – orrendamente – come “viventi”), poesia che nella piccola ma feconda realtà di Udine Selan frequenta. Viene da chiedersi se questa epifania sarebbe stata possibile allo stesso modo senza la preparazione underground che, all’interno delle poesie, ne precede l’emersione.
Oltre che in questa inaspettata veste di poeta “d’amore” (ma del resto, non è proprio questo che il Nostro chiede?), Selan avviso dà il meglio nelle poesie più brevi, sospese tra l’epigramma catulliano e il Kerouac dei “pop-haiku”, l’icasticità e l’ambiguità. Qui sotto una selezione.
Ognuno a suo modo
a dare carne e un cielo
a questa libertà
Tu taci, non dirgli nulla,
che provino i padri
il perdono dei figli
Odio la vita,
chi me la fa amare
per un secondo
e poi se ne va
così.
Per ammissione dello stesso Selan, in questa silloge c’è forse troppa rabbia, non sempre decantata e liberata da se stessa; nondimeno, i brevi esempi qui sopra (e la raccolta nella sua interezza che lascia un senso di equilibrio nel lettore) credo dimostrino che la strada per “uscire dalla periferia” è stata annusata, e che siamo di fronte a una nuova e interessante voce; certo, il margine di crescita è ampio, ma la caratterizzazione è già presente, forte e valida. Sento che l’inedito qui sotto può dare sostanza a questo auspicio.
Rispondi una riva, un cenno
di neve, Itaca, infine, dal
lato dell’uva, dei grappoli d’osso,
carcasse di spuma. Nella marina,
con le bandiere nel vento, in tempo
di festa si scriveva i fondali,
le quinte dei pozzi, le dita sorprese.
E scaltre le mani dei commercianti,
per un’ancia di labbra un sospiro,
una loro segreta sinfonia.
Federico Rossignoli