foto di Dino Ignani
Quell’abbraccio te lo sei preso tutto,
lo hai sentito premere tra le scapole:
un bene semplice che non ti raggiunge.
È una trincea la casa materna dove mi ospiti,
in cui i morti spiano le mie voglie, i tuoi gesti
misurati: non eccedi in niente, emargini
ai miei occhi le stanze più intime, chiedi scusa
per il disordine e poi dici di no, pronunci
le parole vuoto e fermo per intendere una fine,
per benedire nel sonno dopo la fatica
questo uso incosciente dell’affetto.
Come dire che questo libro è scritto
per te, per il lutto indossato ogni giorno,
per quel popolo disperso nella storia,
spodestato dalla terra, spinto nel cuore
dell’oceano. Come dire che sono la stessa
persona il ragazzo arreso alle porte scorrevoli
mentre chiede monete ai passanti e il bambino
accostato alla parete in attesa del padre
di un altro colore con la maglia azzurra
distratto e curioso, geloso della sua buona stella.
E tu hai mangiato? Hai bevuto? Vuoi fumare?
Com’è andato il viaggio. Quando torni a casa.
Dove abiti adesso. Dove eravamo tutti, prima
di questo pomeriggio spento, dell’apertura
dei bar, prima di rimetterci in viaggio
e dimenticare la verità, ogni bene, la colpa.
Il mare qui è un composto semplice, arancio
liquefatto nell’atmosfera, gas che annega
e brucia tutto: questo è l’odore di un’altra
vita, cresciuta al margine di una memoria non mia,
aliena fantasia di un attimo che sposta l’asse
mutando sogni e pianeti, senza distanza.
A volte lo sento in uno svoltare di strada,
appartiene a un passante, al suo stare
in un giorno reale: forse sono tornati
davvero gli dèi e tu non senti più il vuoto
nella pancia ma profumi di miti, stagioni
immortali, eroi che travasano la superficie
nel nero abissale e saltano, di nuovo, per amore.
(Prossimo e remoto, Eleonora Rimolo, ItalicpeQuod, 2021)
Intensamente dolorosa almeno quanto profusamente espressiva, l’ultima fatica poetica di Rimolo; testo in cui l’idea che si propone, si conserva, e di conseguenza scaturisce da quest’opera è di una concezione compatta del testo, da cui si deriva la summa per cui la poesia sia una documentazione (ora lirica, ora didascalica) quanto più passionale; composta entro i limiti della realtà drastica, scoperta e scandagliata nella sua simbologia, tentando una parola che non perda mai la condizione propria del sé, e della necessità espressiva di comunicare humanitas.
Ed è in effetti il senso dell’umano, nella sua angosciante natura e nel suo pathos totalizzante, quel che s’intende essere a fondamento e culmine del testo dell’autrice; concetto che la poeta espone attraverso l’ampio respiro del verso, sfociante formalmente da un ipermetro profusamente generoso nel produrre immagini.
Componendo una sorta di fregio barocco tra concavo e convesso, il lirismo contenuto nel testo non può far a meno che prediligere un “tu” generale come soggetto preposto al dialogo, che assume una forma monologante sulla carta, esponendo così un io disperso tra i poli dell’abbandono e della perdita, risultandone ferito a morte.
Per questo motivo potremmo statuire che le tracce dell’io in Rimolo approda ad una forma profondamente propria della poetica ormai consolidata, così proponendo una versificazione che si dota d’una veste confessionale all’apparenza, ma risultante in ultima istanza sostanzialmente intimistica – passando per la sofferenza esistenzialistica che solo la drammaticità, percepita con altrettanto tragica coscienza e consapevolezza, sa offrire.
In questo modo, di conseguenza, potremmo dedurre che il dettato della nostra predichi il mondo, ma non ne sia né parte vittoriosa, né parte vinta; se non in termini di redazione dei fatti una volta assimilati nel ποιέω, che potremmo supporre essere figlio della figurazione obliqua, della ferocità rilucente, e del dire l’ignoto nell’utilizzo di una lingua che sperimenta il reale in termini di pura e disperata conflittualità tra sfere soggettive che non si compenetrano nell’immediato, per poi soffrirne tuttavia la mancanza nel futuro.
Ed è forse anche per questo motivo che il macrocontesto semantico a cui afferisce la qualitas dei lessemi adottati dalla nostra riposa nell’uso quotidiano del lessico, la cui parola è completamente intrisa di un senso tangibile, reale, quasi paradigmatico del pragmatismo a cui il testo aderisce.
La ragione di questo potrebbe ricostruirsi, in via meramente speculativa, nell’ipotesi per cui la versificazione di Rimolo interiorizza una incompiutezza pervasiva dell’episteme, necessitante in qualche modo di quella parola in più, ovvero di un dire ulteriore; affinché l’esterno-dal-canto (come l’interno-del-canto) si dimostri compiuto in un ultimo eroico tentativo di squadrare un senso che dall’epifenomeno umano possa ascendere ad una universalità condivisa, e condivisibile.
Carlo Ragliani