Parabola di Fera Infèri, che volle uccidere ed uccise, Federico Ghillino (Howphelia, 2022)
Forse la strada meno battuta dalla poesia contemporanea italiana è quella narrativa. Comprensibilmente: se già il romanzo, con l’ascesa di cinema e serie TV, ha poco alla volta perso il suo primato di “arte narratrice”, ancora più marginale, su questo piano, è il ruolo della poesia. Ciò che Federico Ghillino fa nella sua Parabola di Fera Infèri, che volle uccidere ed uccise (Howphelia, 2022) è quindi un’operazione di controtendenza, e doppia: non solo una narrazione in versi, ma anche una narrazione in metrica (principalmente in endecasillabi), che recupera in pieno, così, alcune modalità della poesia messe da parte dalla storia e che hanno ascendenza, come si sa, soprattutto dantesca.
Il libro di Ghillino, però, è tutt’altro che un restauro. Sì, metrica e narrazione in versi rimandano a un’altra stagione della poesia; ma il merito dell’autore è quello di piegare questi strumenti antichi a sensibilità ed estetiche – fluide, agitate – fortemente inserite nello zeitgeist contemporaneo. E almeno su tre livelli: mediale, d’immaginario, stilistico. Quanto al primo punto, la Parabola si accorda infatti alla consuetudine di Howphelia di produrre i propri libri in forma espansa, inserendoli cioè in un oggetto creativo più ampio della pagina: questo libro è il tassello di una saga intitolata Cronica familiare dei fratelli Miranda e Costante e di molti altri che nulla hanno potuto, ma soprattutto si lega a una serie video realizzata dallo stesso Ghillino, portando così la macro-querelle sulla narrazione (film, romanzo o poesia?) all’interno dello stesso spazio (allargato) dell’opera, in un’ottica intermediale e schizofrenica.
In questo modo, la narrazione in versi, da modalità estinta (o quasi) sembra riattivarsi in maniera significativa proprio per la sua capacità di tenere insieme istanze che il modello bembiano, diviso tra Boccaccio e Petrarca e a lungo dominante nella nostra poesia, ha teso invece ad allontanare; ovvero la costruzione della storia, da una parte, e il lavoro sulla lingua, dall’altra. Possiamo quindi dire così: l’intermedialità in quanto tale permette all’autore, in primis, di riunire all’interno di una stessa opera modalità e funzionalità estetiche diverse (se non contrastanti); dopodiché egli può lavorare singolarmente – ma sempre interconnettendoli – su immaginario e stile, per riscriverne il ruolo, o la natura, all’interno del genere della narrazione in versi.
Così, dal lato dell’immaginario, l’autore opta per la distopia: seguiamo la vicenda, appunto, di Fera Infèri, con la prima sezione, Corpo civile, che racconta il rapporto della protagonista – «diciannovenne della provincia lombarda […] arrabbiata» – con i mondi grigi e squallidi della famiglia e della scuola, e la seconda, Corpo militare, che si focalizza sullo scontro splatter e iper-dinamico tra le GALS (il «Gruppo Armata Larissa Sassi» che, con un colpo di stato, ha imposto una dittatura in Italia) e la resistenza del Partito Femminista Italiano. Dal lato dello stile, invece, consapevole di collocarsi all’interno di un genere anticamente codificato e difficile da affrontare “neutralmente” oggi, Ghillino lo rivitalizza, paradossalmente, irrigidendone le caratteristiche (i capitoli sono strutturati in gruppi di tre o quattro poesie, quasi tutte della stessa lunghezza; la struttura metrica è evidenziata, soprattutto nella prima parte, dalla cadenza regolare dell’accento, da rime e altre figure di suono), fino a renderle parossistiche e/o ironiche (a partire dai nomi giullareschi – «Augusto Nascosto Scranno», «Alma Sparar Contigo»… – e arrivando all’elenco dei personaggi posto a inizio sezioni, come si usa nella drammaturgia).
Il risultato è quindi una poesia-narrazione camp, che gioca sul ribaltamento (della centralità maschile nella storia, ad esempio, con la guerriglia decisa da due schieramenti femminili), sulla parodia, sull’intermedialità, in grado di recuperare un genere oggi marginale attraverso l’estremizzazione giocosa, divertita, dei suoi stilemi, e insieme di produrre qualcosa di esteticamente complesso, multiplanare, nonché critico e acuminato dal punto di vista politico.
Antonio Francesco Perozzi
1. Il disordine di Fera Infèri
Eccolo, arriva, corre tra le frasche.
Ha un’arma così precisa
non capisco se sia vera o riprodotta.
Ha gli ultimi proiettili con sé
quelli che rimangono prima del macello,
quelli che mi servono, per essere pericolosa.
Mi tocco le tasche di continuo.
Cerco da fuori. Poi me le frugo.
La mano cade, il braccio affonda, sento
che sto per sprofondare nella stoffa. Vado.
Dentro è ordinato, c’è pieno di strumenti
armi per far notte, motori per la presa
del potere, afflizione del dolore, esercizio
della furia e distruzione del giudizio.
Ne faccio un proiettile: torno nel bosco.
La bestia che punta al successo
non s’aspetta un bossolo nel petto.
Muore, passo il cancello, dentro il macello.
Mio padre percorre gli uffici
gestisce le fasi del lavoro, mia madre
scuoia la carogna della bestia.
Gliela porgo, non le interessa cosa fosse,
nemmeno a me, le basta un filo assottigliato
e conoscere un po’ di anatomia:
così un corpo si sfa – in un attimo.
Lascia gocciolare, aspetta fumando.
Mio padre le abbassa lo stipendio,
perché è sporca, la perseguita
con un meno insanguinato in busta paga.
Lei ha smesso di pagare nei bar
cambia sempre posto, con sé
mai mancano lame più taglienti.
Mio padre mi dà un buon voto
e la coccarda per la morte più cruenta:
la mia. Carico, ma il proiettile era uno
ed ho giusto la forza di scalciare.
Mi sveglio intontita, fa freddo
e ho mezza faccia congelata, la finestra
è rimasta aperta. La stanza
ha tutto ciò che serve a questa età:
letto sfatto, armadio aperto, pc acceso,
e tanto disordine di rigetto.
Ho odore di ferro nel naso
perdo spesso sangue la mattina.
Lo so, non mi spavento più se vedo
sul cuscino una macchia mezza secca.
Mi vesto anonima, senza una forma,
senza colore, spero di sembrare
stoffa che fluttua, alga che aleggia
una bestia dal margine dell’area
che se qualcuno abbia dei dubbi
almeno abbia paura.
Prendo lo zaino, non faccio colazione
bevo un po’ d’acqua, non mi sento sicura.