Quel che intendiamo oggi per poesia risale a molti secoli fa. L’uomo scrive in versi, racconta se stesso e il mondo in cui vive, filtrando tutto ciò attraverso la propria esperienza emotiva; non sta ai fatti, ma dentro i fatti, non li considera in sé, ma nel loro aderire a se stesso, alla propria coscienza. È questo che indica la lirica, la poesia lirica.
Ma la poesia esisteva già molto tempo prima, quando ancora mancava la parola scritta per esprimerla, una scrittura nella quale condensarla; era quello, però, un tempo in cui l’uomo sentiva o creò il bisogno di raccontare il passato e il presente, la storia e il mito, le vicende del pianto e del riso. Pregava i suoi dèi o ne celebrava le imprese. Era il tempo in cui i poeti non parlavano di sé e non parlavano di altro all’infuori di storie che sembravano esistere da sempre e nessuno aveva inventato. Era il tempo dell’epos e dell’oralità. Una declinazione della letteratura antica che si distingue per aver sempre qualcosa da insegnare, un modello al quale conformarsi, un passato da raccontare.
I poeti epici chiedevano aiuto e ispirazione a quel divino di cui si sentivano il tramite rispetto agli altri esseri umani: che si trattasse di Apollo, o delle Muse, o di Venere, in qualche caso raro, il poeta era un medium attraverso cui si esercitava una delle possibili coniugazioni del fari il parlare profetico, che ricorda il passato e preannuncia il futuro. A un certo punto, però, qualcosa cambia, e la poesia che racconta non basta più. L’uomo ha bisogno di un verso nuovo, che suoni e canti se stesso più che gli eventi, o anche gli eventi, ma per come lo cambiano e lo trasformano. Il mito racconta che la lira, inventata dal dio Hermes e ceduta poi ad Apollo, fu donata da quest’ultimo a Orfeo, un semidio, il figlio della Musa Calliope – dalla bella voce – una sorta di sciamano, capace di incantare con la sua musica animali e elementi della natura, persino le anime dei morti e il regno degli Inferi. Senza che del suo mito si ripercorra qui ogni tappa, vale la pena soffermarsi sulla sua morte: fatto a pezzi da donne devote al culto di Dioniso, sempre antagonista di Apollo, la sua testa, insieme alla lira, finisce nelle acque del fiume Evros, galleggiando e continuando a risuonare per sempre. Quel canto, quella voce che, scivolando sulle acque, con il fiume, sfocia nell’Egeo, va ad impregnare di sé i luoghi nei quali il canto lirico diventa la nuova possibilità espressiva dell’umanità. Una possibilità in cui, se pure il divino continua ad esistere, non è più la fonte del poetare, ma ne diventa, a volte, l’oggetto, o il destinatario, mentre l’uomo si fa creatore e artefice delle parole che suggerisce al mondo. Più o meno in un tempo analogo, un altro suono interviene a scandire un verso differente, meno vibrante, ma ugualmente sonoro. È il canto dell’aulos, uno strumento a fiato spesso e erroneamente assimilato al flauto, che produce tuttavia un suono profondo, persino cupo, tale da simulare le movenze della voce, riproducendo del sentire umano il rimpianto o la rabbia: destinato ad accompagnare nuove forme poetiche che rientreranno poi nel mondo della lirica, sebbene alla compostezza della lira apollinea non si accompagnino, e anzi, a tratti, vi stridano. L’elegia ne sintetizza i tratti, determinando l’altro genere della poesia che racconta l’uomo e il suo dolore. Entrambe le forme, non è un caso, rimasero escluse dalla Poetica di Aristotele, la prima grande opera di critica letteraria dell’Occidente, che dedicava, invece, un’attenzione assoluta all’epos e al teatro. La storia ha poi voluto dimostrare come, invece, dopo secoli e secoli di coesistenza, questa seconda dimensione della poesia abbia preso il sopravvento tanto che ad essa noi riconosciamo il senso pieno del dire poetico, al suo permanere, pur attraverso infinite possibilità di cambiamento, da quando l’epos si è probabilmente reinventato nelle miriadi di possibilità creative della prosa, e il teatro ha scelto di rinunciare al suo abito formale in versi da ormai quasi duecento anni a questa parte.
Olga Cirillo