Nel 1926 la Svizzera ha visto aprirsi un periodo storico di particolare importanza che è durato fino al 1973 e che ha coinvolto diverse centinaia di persone. La fondazione Pro Juventute (a tutt’oggi in attività pur avendo in gran parte preso le distanze dal fatto storico – il sito internet è facilmente raggiungibile) avviò un programma di soccorso denominato Bambini di strada e che aveva come obiettivo lo stabilizzare la situazione dei figli degli zingari che pare vivessero in condizioni di particolare disagio. Nello specifico l’azione assistenziale interessò gli Jenisch, una popolazione itinerante diffusa anche in Francia la cui origine risale ai tempi della riforma protestante e delle successive guerre di religione quando diverse famiglie cattoliche preferirono adottare una vita nomade pur di non sottostare alle disposizioni del trattato di Westfalia del 1648, il quale imponeva ai sudditi di adottare la religione del principe (fonte: prefazione di Mirella Karpati a Steinzeit di Mariella Mehr, Guaraldi-Aiep, 1995).
Il programma consisteva nella sottrazione forzata dei bambini per darli in affidamento alle famiglie sedentarie. Gli allontanamenti si basavano, giuridicamente, sui provvedimenti a tutela dei bambini previsti dal Codice civile svizzero del 1907 entrato in vigore nel 1912. In virtù di questa legge le autorità tutorie avevano il diritto e l’obbligo d’intervenire se i genitori non ottemperavano ai loro doveri e se il benessere del bambino era in pericolo. Le autorità tutorie potevano sottrarre i bambini ai loro genitori e collocarli in istituto o in una famiglia affidataria. Se i bambini erano costantemente in pericolo le autorità potevano privare i genitori dell’autorità parentale e nominare un tutore. Fino al 1978, anno in cui entrò in vigore il nuovo diritto di famiglia, le madri non coniugate non avevano inoltre il diritto di custodia sui loro figli. Le autorità potevano assegnare l’autorità parentale alla madre oppure al padre, se quest’ultimo riconosceva il figlio, ma nella maggior parte dei casi nominavano un tutore. Con questo sistema giuridico la consuetudine che si consolidò fu quella di affidare la tutela dei bambini alla fondazione Pro Juventute.
Dopo l’allontanamento ai bambini veniva cambiato il nome al fine di renderli difficilmente raggiungibili dalle famiglie di origine e venivano dati in affidamento ad altre famiglie. Queste ultime però non erano abbastanza e così si conta che oltre l’80 per cento dei bambini venne collocato in istituti e riformatori. Pochissimi di questi ebbero la possibilità di frequentare la scuola media e pochissimi seguirono un apprendistato. Al termine della scuola dell’obbligo la maggior parte di loro andò a lavorare presso famiglie contadine come braccianti o come domestici presso privati. È riconosciuto che le diverse forme di collocamento non portarono ad alcun miglioramento, anzi negli istituti i bambini spesso vennero picchiati ed emarginati a causa delle loro origini se non proprio soggetti a diverse forme di abuso. Molti furono anche oggetto di controlli sanitari che prevedevano ricoveri in osservatori e cliniche psichiatriche (se ne contano circa un centinaio). A causa delle loro origini erano considerati portatori di tare genetiche e quindi collocati in istituti per disadattati o per minorati mentali. In questi venivano abitualmente utilizzati gli strumenti dell’epoca quali l’elettroshock, il carcere, le terapie chimiche.
Pare che inizialmente l’opera assistenziale incontrò il favore di larga parte della popolazione e Pro Juventute ricevette molti attestati di stima. Col tempo però l’opinione pubblica iniziò a criticare il suo operato e solo grazie a diversi articoli giornalistici e reportage (e non grazie alle diverse famiglie Jenisch che avevano tentato di ritrovare i loro figli in quanto l’allontanamento sistematico dei bambini era compatibile con l’ordinamento giuridico in vigore e quindi i ricorsi dei genitori venivano tutti respinti) l’indignazione pubblica divenne tale che si dovette chiudere il programma Bambini di strada (era il 1973). La conta degli interessati da quest’opera assistenziale è di 586 bambini.
Mariella Mehr, che leggo in questo suo stupendo Ognuno incatenato alla sua ora (Einaudi, 2014), è una di queste bambine che ha vissuto l’allontanamento (fu tolta alla madre da piccolissima crescendo in sedici diverse case famiglia e in tre istituzioni educative) e fu a lei stessa tolto un figlio che ebbe a diciotto anni. Subì quindi quattro ricoveri in ospedali psichiatrici, violenze ed elettroshock e venne reclusa per quasi due anni in un carcere femminile. Un percorso che emerge nei suoi versi come amore e disperazione, come urlo e preghiera, in un atto di liberazione poetica che conosce il male ma che sa tendere anche al bene.
Mariella Mehr vive attualmente in Toscana e ha sessantotto anni.
con i piedi del chissàquando
per strade del chissàquando
fiocchi di neve
sulla balaustra del silenzio
rilassato sentiero del sogno
la salita alla luna
fiancheggia una risata dell’eterno
luce corrotta
e piange lacrime
icaro
lacrime
mio fratello di latte
che abiti come me
tra i rami sottili
del tempo
la mia parola si deforma
e diventa mano della luna
nastro il tuo
orecchio dell’anima
un canto vasto come la notte
Niente,
nessun luogo.
C’è ancora rumore
di sventura nella testa,
e sulla mappa del cielo
io non sono presente.
Mai è stata primavera,
sussurrano le voci di cenere,
sulla bilancia del linguaggio
sono una parola senza peso
e trafiggo il tempo
con occhi armati.
Futuro?
Non assolve
me, nata sghemba.
Vieni, dice,
la morte è un ciglio
sulla palpebra della luce.
Non chiedere,
non ordinare il pasto
perchè i morti non si
fanno pregare,
prendono un assaggio dalla ciotola del mai
e lo portano nel serraglio del cielo.
Raramente si trova lì dentro qualcosa di utile,
ma di tanto in tanto una strada di luce,
un labirinto, che cercare di evitarlo
è quasi insensato.
A gruppi di urla,
si presentano un essere dopo l’altro
noi veniamo a capo dei loro nomi
non del loro futuro
non aiutano i canti.
Gli abiti da tempo strappati
ci rimettiamo al lutto del silenzio
e siamo quello che siamo:
un sorriso del passato.
Per H.U., 01.01.05
Un cuore smerciato
un cuore che non piange.
Dove sono finite le lacrime
dove il lutto per il
giorno ancora arrotolato?
Non appartiene a nessuno
questo cuore
non è stato strappato a un corpo
non c’è nostalgia in vista.
Un passo di parata taglia
pensieri e terreni.
Così vai anche tu,
con un amen masticato eternamente
nello sguardo
pensa alla povertà
come materia infinita del cielo
riuscita per sempre
18.11.07