Nell’azzardo del respiro la piena dell’affanno – Loriana D’Ari

Nell'azzardo del respiro la piena dell'affanno - Loriana D'Ari

 
 
Ai piedi del biancospino
tra foglie sfatte e relitti di tempesta
il fermaglio sbrecciato spicca
la tua corsa di sudore e madreperla
puoi sentirlo, con mani di conchiglia
sprigionare la vita nello schianto
di radici scalzate a fiorire nel fango.
 
 
 
 
 
 
Questa luce atroce ci abbaglia.
Il sublime risuona, il male dirige l’orchestra.
È che tutto funziona, qui, tutto
è pulito, e abbiamo nomi per ogni cosa
e le cose scansano i nomi.
Dunque ridateci nude carcasse
agli argini delle coscienze, vogliamo
l’odore di prima della cenere
e tutta la vita brulicante, intorno.
 
 
 
 
 
 
Sei andata via, ma la voce resiste
e propaga infinita oltre la fonte
tutto il mistero della cosa viva:
per sempre rideremo dei capelli
arruffati, dirai per sempre a presto
dall’ultimo vocale, nell’azzardo
del respiro la piena dell’affanno.
Prenderemo per vere le parole.
 
 
(Loriana d’Ari, inediti)
 
 

In questi testi di Loriana d’Ari la vitalità dell’esistere viene mostrata nella sua priorità di fenomeno corporale, fisico – prima che nominato, nominabile.

Sono numerosi i riferimenti alla fisicità e all’azione del corpo (“la tua corsa di sudore” … “la vita nello schianto” … “nude carcasse” … “vita brulicante” … “mistero della cosa viva” … “capelli / arruffati” … “nell’azzardo / del respiro la piena dell’affanno”) e altrettanti quelli all’evidenza materiale della natura (“Ai piedi del biancospino / tra foglie sfatte” … “radici scalzate a fiorire nel fango” … “Questa luce atroce ci abbaglia”).

A fare da contraltare abbiamo la parola, che tenta di comprendere il reale attraverso la nominazione, per riconsegnarlo a sé e all’altro in una possibile prospettiva di senso: “abbiamo nomi per ogni cosa / e le cose scansano i nomi” … “la voce resiste” … “dirai per sempre a presto” … “Prenderemo per vere le parole”.

Nel primo testo il gesto diventa slancio vitale (“la tua corsa” che arriva a “sprigionare la vita nello schianto”), il quale, attraverso la trasfigurazione con l’ambiente naturale circostante, si rivela occasione sia per mostrare un collegamento tra l’uomo e la natura (in richiami come “sudore e madreperla”, “mani di conchiglia” o anche solo nelle “radici scalzate”, riferibili sia all’ambientazione naturalistica che alle origini del passato), sia per mostrare la sua fragilità (“sprigionare la vita nello schianto”) sia, infine, per restituire tale fragilità non tanto come elemento di mera vulnerabilità, ma come occasione di ciclicità e di rinascita, anche in relazione al biancospino iniziale e alle “foglie sfatte”, e alla sua capacità di rifiorire “nel fango”.

Procedendo, la realtà viene mostrata come abbagliante e “atroce”, assimilata alla luce, funzionale (“tutto funziona”), pura (“tutto è pulito”): “il sublime risuona”, di per sé, mentre “il male dirige l’orchestra”. Si potrebbe leggere in questo verso una contrapposizione tra ciò che non ha bisogno di una direzione esterna, creando in piena autonomia una risonanza di splendore (assimilabile alla realtà naturale e alla sua bellezza) e la volontà, tutta umana, di controllare, imbrigliare e irretire il mondo a proprio uso e consumo per realizzare “la risonanza” alla sua specie più utile o gradita.

Il testo procede invocando “nude carcasse / agli argini delle coscienze”, e dunque una realtà più autentica e priva di filtri deformanti come quelli della ragione o della coscienza, “naturale” in senso stretto, chiedendo “l’odore di prima della cenere” – dell’incendio e della sua vampa vitale (una curiosità: cenere in greco è σποδος, da cui proverrebbe splendore, in quanto “cosa che fu splendente” – e questo si ricollegherebbe bene alla “luce atroce” iniziale). “l’odore di prima della cenere”, si diceva, “e tutta la vita brulicante, intorno” – a conferma che è questa la realtà autentica, vitale, piena dell’esistere, da accogliere, e in cui cercare una prospettiva di senso, per quanto la sua luce possa essere abbagliante o “atroce”.

Una realtà in qualche modo “precedente” a quella della coscienza e della ragione, che può essere recuperata e riconosciuta – come nucleo di auscultazione dell’altro da sé e del mondo – prima del filtro del ragionamento.

L’ultimo testo si concentra sul rapporto tra l’io e l’altro, e in particolare alla relazione tra gesti, parole, corpo, in quanto parte integrante della realtà naturale appena descritta. “Sei andata via, ma la voce resiste”, così come la risonanza sublime del reale di cui sopra – e la d’Ari lo conferma, “e propaga infinita oltre la fonte / tutto il mistero della cosa viva”.

L’attimo segreto del comprendersi in quanto vitali e componenti di “tutta la vita brulicante” circostante consente di diventarne parte sensibile e incosciente allo stesso tempo, permettendo il “mistero” irragionevole del “per sempre”, che si concreta in gesti semplici e quotidiani: ridere “dei capelli / arruffati” credere nella provvisoria certezza degli “a presto”, e nella ancor più transitoria evidenza del respiro. L’immagine dell’eterno si svela nella capacità creaturale di perdersi nell’intimità dell’attimo.

“Prenderemo per vere le parole”, proprio perché la loro aderenza al reale è parziale, insufficiente – perché il reale ha bisogno di maggiore compartecipazione per essere fisicamente compreso, incorporato in senso ampio – la nominazione e le parole consentono solo un’incompleta comprensione e ritrasmissione, per quanto preziosa.

Bisogna evidenziare la differenza tra le parole (che “prenderemo per vere”) e la voce (che “resiste” dall’ultimo vocale): le parole possono essere, appunto, vere o false, o persino vere e false – allo stesso tempo – (lo suggerisce la contraddittorietà di quell’a presto con un testo che ha il sapore di un addio) mentre la voce ha carattere di fisicità, di impronta, appartiene dunque alla realtà sensibile (a prescindere da ciò che può dire), soprattutto se registrata e conservata come una fotografia. In questo genere di dettagli si realizza la collaborazione tra linguaggio e fisicità, tra corporalità e nominazione, evidenziando sia le qualità che i limiti di ambedue, invitando a un ascolto completo.

È in questo gesto di fiducia verso ciò che il linguaggio, pur manchevole, può rivelare e ritrasmettere, consapevole della differenza tra ciò che è vero e ciò che è reale, che la parola di Loriana d’Ari crea uno spazio di serena esperienza del mondo, dove, pur nell’apparente dissociazione tra parola e percezione, gli strumenti convergono verso una traccia autentica di partecipazione al reale, al mondo e alla natura.

 

Mario Famularo