Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) – Gianluca D’Andrea


Nella spirale (Stagioni di una catastrofe), Gianluca D’Andrea (Industria & Letteratura, 2021).

Innovazione linguistica e fisica, pensiero filosofico e geometria, oltranza di visione e biologia sono solo alcuni dei paradigmi che guidano la scrittura di Gianluca D’Andrea nel suo ultimo libro, Nella spirale (Stagioni di una catastrofe), edito da Industria & Letteratura nel 2021, nella collana Poetica curata da Niccolò Scaffai e Gabriel Del Sarto, con la postfazione di Fabio Pusterla. La contaminazione delle discipline e dei linguaggi è anche nella scelta di collegare il testo alle arti visive, dall’illustrazione di Francesco Balsamo in copertina, che fa tutt’uno con la spirale del titolo, ai disegni di Vito Bonito all’interno del libro, in una sorta di contrappunto simbolico-grafico. Nella spirale è un libro proteiforme, lucidamente magmatico, che coniuga senza reticenze le esplorazioni critiche e poetiche dell’autore, le esperienze del presente e gli esiti storico-evolutivi della conoscenza. Sfumati i criteri di classificazione dei generi letterari, il testo muta forma di continuo, ora prevale la prosa, che si fa speculazione filosofica, auscultazione di opere altrui, narrato visionario, cronaca di uno spazio-tempo preciso eppure indefinito, ora emerge la poesia nella misura della tradizione (dalla Scuola siciliana a Dante), rinnovata nel ritmo e nei contenuti, e fitta di neologismi o inserti in dialetto siciliano (il messinese delle origini dell’autore). La tensione metamorfica coincide con l’attitudine al movimento, che è il leitmotiv di questo come dei libri precedenti di D’Andrea (basti ricordare Transito all’ombra, Marcos y Marcos, 2016). Il porsi sempre “in cammino” è carattere imprescindibile del poeta e dell’uomo, da non intendersi come il vagabondare ozioso del flâneur, ma come postura etica e gnoseologica per interpretare la realtà: “In cammino è la visione del mondo, guardare nelle sue trasformazioni, camminare scalzi per non offendere i fermenti, mettersi da parte, contemplarlo”. L’itinerario non è mai lineare, segue piuttosto un andamento a spirale, un vortice di percezioni e visioni da cui registrare i segni di una catastrofe (altro termine chiave del titolo), quasi una preconizzazione della fine di un’era.

Il libro si compone di quaranta testi ed è scandito in quattro stazioni temporali che corrispondono alle stagioni, a riprodurre il movimento ciclico dell’esistente. In apertura è la sezione Primavera, con uno scarto rispetto all’idea di rinascita cui viene associata di consueto, poiché subito il tema riguarda “tempi e luoghi della fine”, la decostruzione di un intero sistema di relazioni tra uomo e ambiente (i cambiamenti climatici, i mutamenti evolutivi dell’umanità, la teoria del tempo rivoluzionata dalla fisica quantistica). D’Andrea si muove sul doppio binario della logica e dell’inventiva, e ingloba nel flusso un’ampia serie di citazioni di filosofi, scrittori, poeti di ogni epoca (da Luciano di Samosata a Foucault, da Melville a Krasznahorkai, da Giacomo da Lentini a Stevens), non certo per accumulo di erudizione fine a sé stesso, ma in adesione profonda al pensiero di ognuno, tanto da far sbiadire i confini tra la sua voce e quella degli autori convocati. Sotto il registro analitico si avverte una concitazione, come un’urgenza di riflessione su temi che riguardano la nostra stessa sopravvivenza, nel momento in cui “fuori dal dominio e dalla clausura del capitale” sembra non esserci spazio per l’uomo. Non si può restare indifferenti dinanzi a scenari sempre più drammatici, persino apocalittici: “Il luogo dell’adesso è un arcipelago di gabbie con attorno, appena fuori, accanto, subissi di sofferenza”. Occorrerebbe cambiare passo, abbandonare vecchi schemi, ribaltare prospettive, “tra uomo e mondo nessuna separazione, allora, ma un unico corpo immerso nello stesso clima da cui dipende la nuova configurazione della terra”. D’Andrea individua una possibile via d’uscita: “l’unico vero rifugio è l’accordo col mondo, divenire definitivamente uomonatura”. Poi la prosa cede il campo alla poesia con i versi di Orpheus Tomorrow, una modernissima variazione sul mito, una catabasi onirica e perturbante. Orfeo potrebbe essere l’ultimo o il primo uomo sulla terra, “nascente come un uomo / raccolto nel suo attimo di rivelazione, / nella sua notte del passato. Nell’avvenire. / Così trasfuso nell’apparizione del mondo / nell’ora più solitaria / del suo cuore solitario”.

Nella sezione Estate il viaggio vira verso i luoghi dell’infanzia, un ritorno alle origini dentro l’isola (la Sicilia) che è al contempo sprofondamento negli abissi della memoria e nelle cavità della terra. Qui si snuda il senso del passato, gli anni della prima formazione in una terra di forti contrasti rivelano “l’esistenza fragile in tutto il suo travaglio, raccolta nell’isola, nello sputo triangolare di una divinità di passaggio”. In un paesaggio ora scabro ora rigoglioso, ora abbagliato da una “luce selvaggia” ora avvolto nell’oscurità di anfratti e cunicoli, dove i corpi si inoltrano coperti di polvere e sabbia, il racconto delle esplorazioni con i compagni assume una dimensione mitica, un’aura ancestrale: “Il mito dell’alieno che muove i primi passi sul pianeta, tra ciottoli e merda, tra allori ed euforbie, ginestre e zammari. La tribù dava nomi per fissare la scena, narrava la sopravvivenza della specie, rimescolava l’esistente rendendolo lastra, strato, lamella, fossile”. Il processo di crescita richiederà la rimozione del passato, quasi una colpa di cui disfarsi o una voluta dimenticanza per ricostruirsi su nuove basi. “Come il sogno di un’estate che declina, il viaggio era trascorso”.

Il paesaggio muta radicalmente aspetto nella sezione Autunno, si compie il transito dal sud al nord. I luoghi ora hanno tracciati regolari e sono dominati dal lavoro e dalla presenza umana, eppure il senso del declino è ancora più incombente: “Catabasi tra gas e pestilenza, la tundra urbana che emana «fragranza di Persefone» e che chiude definitivamente l’estate, tappezzando l’asfalto”. I giorni passano divisi tra le azioni consuete e l’incapacità di prefigurarsi un futuro, come “in attesa di una consumazione definitiva”. Si respira un’atmosfera surreale di “rovina incipiente”, contigua al mondo post-apocalittico immaginato da Cormac McCarthy nel romanzo La strada, “Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri”. C’è la paura, certo, per un pianeta lanciato verso la catastrofe, ma più ancora il timore di aver mancato a un compito, di non aver “imparato il suo linguaggio”. Tuttavia quello che si manifesta “nell’apparente impassibilità e nella stagnazione” è un mondo “ancora pulsante di desiderio”, ancora in “attesa della riemersione”.

Le stagioni di quest’opera composita e complessa si chiudono con l’Inverno: è un ciclo che si compie anche linguisticamente con il passaggio definitivo dalla prosa alla poesia in una sezione costituita da dieci componimenti in versi. Dopo che le più diverse commistioni di linguaggio sono state esperite, è la volta della forma chiusa della tradizione poetica, soprattutto di matrice dantesca, fin nella struttura finale del viaggio. L’aulico e il prosaico, il neologismo e l’arcaismo, la terminologia specialistica e il lessico colloquiale, le inserzioni della poesia siciliana del Duecento e le espressioni in dialetto siciliano corrente, tutto converge e trova accoglienza nei testi in una mescolanza magistrale: “Inverno, pallido sfregio di cellule, / in quale giorno sfacelando smisi / stanco lo scanto accettando la crisi? // La luna, argentea danza di libellule, / fissa e mobile in stanze nere osserva / la fine assiderata della belva // le ultime movenze, il suo respiro / vapore astratto, rapido ritiro.” (La luna e la belva). Nato nel segno della spirale il libro si conclude riproducendone il movimento con una sequenza di versi fortemente ritmati e ipnotici, che dispiegano la libertà della lingua in cerca di un nuovo mondo, concepibile forse solo attraverso la creazione poetica. “Intanto questa notte è desiderio / d’aria e respiro, protesta del ghiaccio / alle stagioni in cerca d’altro mare.” (Nuovo mondo).

Daniela Pericone

 
 
 
 
Il falso vuoto
 
Il vento crudo investe la materia,
la crosta assorbe la luce e s’inseria
in pianeti molteplici e poi varia
 
la veste bruna che indorata interra
il falso vuoto e un pieno dissotterra
di residui. Scintilla, e tutta l’aria
 
è un segreto di munnizza scordata,
un’alba dolce astrale abbandonata.
 
 
 
 
 
 
Il viaggio – la fine
 
Lo spillo fossile riluce
lo spazio dispregia e non c’è
‘namoranza disiosa che
rintracci pietà nella luce.
Di quello che fu del passato
che si ripresenti in futuro
l’amore duro,
amerò come mäi è stato amato
 
lo specchio del verde che scuce
lo spettro arboreo inflorescente,
il braccio di roccia che pende
cadendo in sabbia bianca e duci.
Amore da orgoglio umiliato
nell’umile passo misuro
il gioco puro
che baia in grotta e in bosco ha trasformato.
 
La gola di ghiaia conduce
ai fronti glaciali e la terra
discende sciobbata alla pietra.
La lingua s’incava e disluce
nell’antro lo sguardo sfocato
e il freddo che rende insicuro
il passo, è un muro
l’abisso blu che scinni ‘nturcigghiatu.
 
E scende e scende in controluce
il mondo si riversa e accende
il ramo invisibile che
si espande da nuova radice.
Una voce, un soffio attutito,
un ciatu chi manna caluri,
comu l’amuri
tocca le mani, dito contro dito.
 
Intanto il disamore sfocia
nell’iniziale caos che indentra
il fuori in fredde tane, in ventri
monchi e usciati, chi fannu bbuci,
in strati e giri, un nuovo attrito
infinito, ulcerato, duro
come il futuro
senza comfort, dal buio rivestito.
 
E incendiato in cenere inficia
l’abbraccio dû cielu, dâ stidda
cû munnu e gioca a mmucciatedda
negli angoli e ammanchi la specie.
La specie assente assiderata
che manca d’anima e d’amuri.
Senza caluri
‘namoranza disïosa è pidduta.
 
 
 
 
 
 
Nuovo mondo
 
Con le mani non libere stanotte
dormiremo in altre sfere di mare.
In acqua scende pende oscilla l’aria,
tra porti e sbarchi muta le stagioni.
Voi, scampati, considerate il ghiaccio
e in stelle immergerete il desiderio.
 
Forse è un’ultima luce il desiderio
che nuovi dei scandagliando la notte
scopriranno sotto crepe di ghiaccio.
La terra è vostra, correte altro mare
naufraghi carezzati da stagioni
inedite, diverse come l’aria
 
che respirate. Sempre nuova è l’aria
se a commuovere dentro è il desiderio
inestinto del fuori. Le stagioni
si scambiano alternando giorno e notte
anche se l’onda ormai stinta del mare
si dilata da macerie di ghiaccio.
 
Quando la stanca materia nel ghiaccio
al risveglio cambierà ancora l’aria
sciogliendo il cuore nel cuore del mare
venefico, nascerà il desiderio
e un vento nuovo nel cielo la notte
ravviverà le alterate stagioni.
 
Così l’uomo si adatta alle stagioni,
come un respiro profondo sul ghiaccio
che avvolgendo il mattino nella notte
trasforma di anno in anno terra e aria.
Il suo passaggio è puro desiderio,
i suoi passi una scintilla di mare.
 
Come gocce in sospensione sul mare
sono già i nostri giorni e le stagioni
saranno nel futuro il desiderio
di nuove albe, nel cuore di ghiaccio
della terra, fin quando fiato e aria
si scomporranno nell’eterna notte.
 
Intanto questa notte è desiderio
d’aria e respiro, protesta del ghiaccio
alle stagioni in cerca d’altro mare.