Nella salvezza che congela – Matteo Bianchi

 
 
 
 
Nella nube di neve
smessa dal diretto in ritardo
sui pendolari fiaccati
dalla Bora impertinente,
 
mi travolgeva un sogno:
smarrire di continuo qualcosa
durante il viaggio di ritorno.
A rendermi inquieto, però,
non erano gli oggetti
 
i ghiacci sotto le coperte
 
theòs, radice del mio dubbio.
 
 
 
 
 
 
I fiocchi di latte e pane in mezzo
alle ciglia – gli stessi occhi –
delle scuole lontane.
 
Facevamo a palle di neve
e i colpi a freddo ti crepavano le mani
tornavi quello che eri.
 
 
 
 
 
 
La sigaretta si consuma
tra le dita: ridotto
a un niente
sono io dalla passione.
 
Per prima ti ringrazio
del seguito, della ferita:
noi siamo nel dolore
liberi davvero.
 
Un mozzicone si abbandona
di spalle, si fida della neve
 
nella salvezza che congela.
 
 
 
 
 
 
A colazione: spremuta d’arancia
annacquata, doppio caffè e sigaretta.
Mi dicevi che non tutto
è spendibile in versi.
 
 

(Matteo Bianchi, La metà del letto, Barbera Edizioni 2015)

 
 
 
 

In occasione del compleanno di Matteo Bianchi, di cui mi sono già ampiamente occupato molto prima della sua collaborazione con la Samuele Editore (Fortissimo e La metà del letto), voglio tornare ad alcuni suoi versi del 2015 tratti da La metà del letto (Barbera Editore).

E lo faccio per un motivo preciso. Alcuni giorni fa, a Una Scontrosa Grazia, si parlava della poesia di Marco Bini ed è emerso il tema della creazione di una poesia. Ovvero di quel processo che porta dal momento dell’ispirazione iniziale al momento finale del suo licenziamento. Che solitamente coincide con la pubblicazione.

Ed è emersa la questione del libro dal punto di vista della sua gestazione. Un buon libro di poesia, un vero libro di poesia, deve rimanere fermo almeno alcuni anni prima di poter uscire. Perché deve sedimentare, si deve alleggerire, deve saper fare i conti con se stesso. Il che non di rado significa che deve avere la capacità di automutilarsi.

Questo percorso, che sostanzialmente è un iter prima umano e poi poetico, tange una crescita che in questi ultimi decenni ha visto illuminare (per merito) anche una fascia giovanissima di poeti. Sto pensando a Erminio Alberti, Federico Rossignoli, Laura Accerboni, Anna Ruotolo, Valentina Colonna, Chiara Evangelista, Vernalda Di Tanna, Clery Celeste, Eleonora Rimolo, Marco Bini stesso come Matteo.

Sarà la crisi, o le crisi, che dal 2008 costellano economia e società. Sarà una sempre maggior possibilità di accedere alla lettura gratuita anche attraverso la rete, ma è indubbio che la possibilità di diventare buoni poeti è ormai diventata struttura, possibilità concreta.

E qui è interessante tornare al discorso delle crisi, perché non di rado è dalle crisi che nascono le perle. Il mondo si è spezzato più volte. Il senso di precarietà, di paura, sono tornati alla ribalta. La colpa forse non è dello status quo, ma della nostra incapacità di ricordare. La seconda guerra mondiale in fondo non è così lontana nel tempo, eppure ci siamo abituati a un mondo costituito come fosse per sempre.

Ecco quindi che anche un 25enne come Matteo Bianchi (al tempo 25enne, oggi festeggia qualche anno in più) si trova a dover fare i conti con un’economia precaria, una politica allo sbando, ideali ancora presenti nel cuore ma poco concretizzabili e molto poco condivisi. Vecchie generazioni che ancora fagocitano le nuove e tentativi di ricalibrare mondo e cultura come ennesimi e involontari Don Chisciotte.

In questi versi Matteo parla di perdita, di dubbio, di dolore. Un verso azzarda addirittura un nella salvezza che congela. Non esisteva ancora il Covid-19 ma forse ci sentivamo già in lockdown senza saperlo. Chiusi in un sistema che era crollato e che tentava di rialzarsi appoggiandosi alle medesime istanze che lo avevano fatto cadere. E che dal 2020 hanno dimostrato (a chi vuol vedere) tutta la loro pochezza. E i poeti, i poeti che osservavano, facevano i conti con una realtà palesemente grottesca seppur ben vestita.

Perché, e qui azzardo un paragone che ho imparato proprio grazie all’amicizia alle due passioni di Matteo, politica e poesia non sono poi così diversi. Ambedue hanno il diritto/dovere e la necessità impellente di interpretare la realtà, di comprenderla nelle sue maglie più nascoste anche partendo dall’esperienza personale, e di agire. Di ribellarsi anche, a fronte di contraddizioni e ingiustizie. Di dichiarare l’assurdo nel tentativo di correggerlo.

Nel 2015 a proposito dei versi di La metà del letto scrivevo: La storia ci insegna che i poeti volenti o nolenti hanno spesso la capacità di interpretare e perfino presagire la realtà e il suo stato di salute, al di là delle facili apparenze o delle cose che non si vogliono vedere, per cui la domanda che veramente sorge è: perché oggi i poeti ci parlano di freddo? Una cosa questa, anche grazie a La metà del letto di Matteo Bianchi, che credo ci dovrebbe far riflettere.

Forse, oggi, a distanza di sei anni una risposta l’abbiamo incontrata.

Alessandro Canzian