Nel tremore degli anni, Filippo Ravizza (puntoacapo, 2020).
Filippo Ravizza torna dopo tre anni dal precedente La coscienza del tempo” (La Vita Felice, 2017), preceduto alla stessa cadenza temporale da Nel secolo fragile (La Vita Felice, 2014), con un lavoro che completa, come emerge fin dalle corrispondenze incrociate dei titoli, un’ideale trilogia poetica in cui l’autore si confronta, senza ambivalenze e infingimenti, con il rapporto fra Uomo e Storia, individuo e comunità, Essere e Nulla, all’insegna di una poesia che combina alla matrice indiscutibilmente civile una forma espressiva che con la sua articolazione prosodica eredita e rielabora tutta la lezione della poesia di ricerca contemporanea e post-novecentesca.
Ravizza sa sempre associare la profondità dell’ispirazione poetica alla necessità della riflessione filosofica e esistenziale che, se possibile, in questo lavoro tende ulteriormente a acuirsi, per dibattere sul senso e sulle ragioni, con una lucidità e una immediatezza che spingono necessariamente il verso a denudarsi da qualunque tentazione esornativa per farsi oggettivo, determinato nel suo procedere. Se, come fa notare Giuliana Nuvoli nella sua postfazione, il riferimento pervasivo al nulla (“la spinosa verità del niente”) fa immediatamente pensare al magistero poetico di Leopardi, è vero anche che questa inquisizione sul senso dell’esistenza nel suo relazionarsi con “il nulla, l’ovattato mondo” ha un chiaro ancoraggio all’esistenzialismo e a Heidegger in particolare, di cui avvertiamo il respiro lungo tutto il libro. Ravizza ci allerta, coerentemente con Heidegger, che l’uomo può riscoprire la sua autenticità, pervenire al disvelamento dell’Essere, solo rapportandosi e incontrando il nulla, in un’esperienza che presuppone l’angoscia come sentimento privilegiato – la “disperazione” a cui a più riprese fa riferimento Ravizza. Questa “opaca” e “lucida traslucida” constatazione del nulla diventa sempre più emergente e insopprimibile con il procedere dell’esistenza, “degli anni” appunto, che si impongono con tutto il loro “tremore”, con tutto il loro peso esperienziale che trabocca e ci impone di essere ascoltato, ci pone di fronte all’emergenza della sua voce, che è sempre sconvolgimento interiore, senso del tremendo: “Jeder Engel ist schrecklich” (Rilke, Duineser Elegien). E, in effetti, il tono elegiaco non è estraneo a questo nuovo lavoro di Ravizza, in cui il recupero memoriale e affettivo è un altro degli elementi cardine, dal ricordo del padre e dell’infanzia, alla rievocazione delle prime esperienze sentimentali e di immersione a denti stretti nella vita, ma non diventa mai nostalgia fine a sé stessa: è invece il motore che alimenta una riflessione esistenziale mai compiacente, anzi ontologicamente drammatica e conflittuale, in cui l’uomo si rapporta con il tempo e lo spazio che lo contengono, nel tentativo di “rivoltare l’enigma il mistero del mondo”. Altrove si dice ancora: “Essere e mondo una cosa sola / l’enigma fondo e inquieto del pensiero”, ribadendo ulteriormente come la riflessione in essere sia volta alla riappropriazione dell’Essere, processo in cui all’uomo è richiesta consapevolezza del suo rapportarsi al mondo, ma al tempo stesso l’affrancamento dalla illusorietà a cui ci costringe il flusso inarrestabile del Divenire: “il vuoto del tutto che non c’è / non esiste veramente”.
Questa “ossessione” del tempo di cui Ravizza parla a più riprese spinge la sua parola poetica fino al limite estremo del dubbio supremo (alla maniera di Cartesio), in cui è il mondo stesso, così come viene vissuto dall’uomo, a essere messo in discussione: un mondo, dice l’autore, che esiste solo finché esiste l’uomo che lo percepisce (“queste intere distese di fiori / che esisteranno finché esisterò io / non un giorno né un minuto né / un secondo di più”), e poi è destinato a svanire nel nulla, nel gorgo dei secoli, dei millenni. Tuttavia la coscienza etica di Ravizza è impossibilitata a cedere a uno sbocco nichilista senza uscita: è evidente come tutto questo πόλεμος dell’io, così dibattuto e franto, sia propedeutico a un superamento dello scacco esistenziale, sia una fase maieutica che consenta l’approdo a una via d’uscita, una “illusione” (nell’accezione leopardiana) capace ancora di speranza. E qui sentiamo di nuovo la presenza di Heidegger: il rifiuto di affidare la conoscenza metafisica solo alla sfera dell’intelletto e il riconoscimento della unicità e della insostituibilità del sentimento, che con la sua tipicità tutta umana, permette il disvelamento dell’Essere che ci appartiene, ma che troppo spesso viene occultato nella routine quotidiana (“correre è infatti nel disadorno tempo / il nostro solo incontro distorto e amaro”). Ecco allora come l’invocazione dell’amore e degli affetti a nostro soccorso non sia un cedimento sentimentalistico, ma una necessità della ragione (che è ben altro rispetto all’intelletto) che così tenta di raccordare l’esistenza al suo senso, una volta che sia avvenuto il passaggio obbligato per il nulla. Angoscia e amore sono manifestazioni apparentemente diverse di un’identica emersione dell’Essere: “appartenenza a una comune / dimensione umana”, come si dice nella chiusa del libro.
Merita attenzione anche l’analisi dello stile che viene impiegato nel libro. Tutti i testi, salvo un caso, sono monostrofici, non viene impiegata alcuna punteggiatura e i versi sono spezzati anche con inarcature nette (alcuni versi terminano con preposizioni semplici o separando il sostantivo dal suo possessivo o frammentando il discorso logico) con una frequente divergenza fra piano metrico e piano sintattico, la lunghezza del verso irregolare e difficilmente riconducibile a forme tradizionali. L’autore riesce così a dare libero sviluppo al “pensiero poetico” senza barriere metriche o sintattiche imposte dalle convenzioni del linguaggio: ne nasce un flusso a getto continuo che vuole riprodurre l’emergenza della parola nel suo darsi autenticamente alla pagina. Altra caratteristica evidente è l’impiego quasi parossistico delle figure di iterazione e di ripetizione che servono a amplificare e rafforzare l’evidenza del pensiero: non è un balbettio quindi, ma un riaccordarsi della parola con sé stessa per generare nuovi flussi poetici a partire dalle stesse fondamenta, con un procedimento oratorio che grazie alla spezzatura del verso si fa anticonvenzionale e cifra originale dell’autore: si veda il testo “Dimmi, dimmi” come esempio.
Il libro di Ravizza si impone quindi per la lucidità della sua visione, per l’uso di un linguaggio incisivo e contemporaneo, per la sua capacità di interrogarsi in modo disincantato e mai retorico sull’esistenza, sul ruolo e il senso del nostro appartenere al mondo. Come sostiene Ivan Fedeli nella sua nota in terza di copertina, la poesia di Ravizza è davvero una “vedetta che osserva oltre e cerca risposte, contorni”, una poesia che chiede l’ascolto di un lettore altrettanto consapevole e che sappia attraversarla.
Fabrizio Bregoli
Il chiarore dei capelli
Danzare, muovere nel ritmo la testa,
incuranti del chiarore dei capelli…
la sentite? sentite la carezza del mondo?
tutto è una maschera impossibile
sì ma è dolce la carezza delle cose
tutto in fondo abbraccia questi capelli
bianchi questi occhiali queste teste
occidentali…
arriveremo, arriveremo senza
mai pensarci, senza mai pensare,
la fine inaspettata coglierà
mentre staremo cantando mentre
staremo stringendo nelle braccia
il nulla, l’ovattato mondo,
l’incoscienza che ci viene incontro.
2018
Dovevano restare
Nelle infinite sere come questa
giovani cavalli come questi
romperanno il passo imporranno il
galoppo all’orizzonte, ma non sapranno
mai di te, di noi; di quel desiderio
di correre percorrere quei cammini
che dovevano durare, restare,
restare lì, anime trasmigranti
cattedrali evenienti restare
“almeno un milione di anni nella
mente e nei cuori” avari di altre
ossessioni dimentichi della
crudele cecità oh viltà viltà
del tempo mio tempo tuo tempo
tempo nostro povero e breve suonano
musiche in fondo in fondo a questo orizzonte
la tutta vera fronte di delizie
e battaglie le forze le voglie
tutto impossibile siamo superficie
falsa, superficie opaca, una
verità che in realtà non esiste
e forse presentono forse lo sanno
i puledri che questa sera hai visto
come folli spezzare la linea
l’orizzonte, mentre uscita dalla mente
torna un’allucinazione: tutto ci
sarà finché ci sarò io, poi
il niente che non ha parole.
Assuan, Alto Egitto, 10 gennaio 2020
Dimmi, dimmi
Dimmi dimmi dimmi tu quando mai
ti troverò stella mia dimmi tu
se verrai vita mia a bussare
alla mia porta in un giorno di sole
dalle colline ombre di scale
vuole che il tempo sia uguale
a noi verticale nelle mie ossessioni
le prigioni che ogni uomo cresce dentro
dentro di sé oh sì oh sì qui
qui dove ora io ti guardo
vita mia quando mai ti amerò
se spegne il ritmo la certezza
che dice: ecco la carezza
che aspettavi, essa illumina
la finitudine che sei,
il volto che hai, l’esistenza
nella noia nella finzione
la sognante verità dell’inazione
che qui ci sprofonda nel lucore
della pagina bianca nella
tua illusione che chiamasti “amore”.
L’ultimo percorso
Vedi? Tutto spinge senza interruzione
apre impeto e corrente verso un
compimento continuo che ti porta
lungo il sentiero ti porta inanella
i giorni via via uno dietro
l’altro dietro l’altro ed ecco:
non te ne eri accorto amico
mio non te ne eri accorto ma
il movimento ha preparato ha
costruito la fine del sentiero:
resterà forse solo un’eco flebile
l’impronta del sorriso il nascondere
lo stupore di essere spinto non aver
mai scelto nulla nemmeno l’ultimo
percorso nostro atto e movimento.