Nel tempo della nostra fine – Vincenzo Lisciani Petrini


 
 
Amare, essere amati.
Innamorare, innamorarsi.
Possibile che a un punto sia il tutto e poi il niente?
Noiose le ore, scorrono lente. Poi di corsa.
Si raccolgono da terra i cocci volta a volta
al minimo sussulto, e niente di niente,
sul cuore ognuno conta croci dimentica voci
e prega senza poter pensare ad altro
altro mai non sperando.
 
«A cosa mai servirà insistere tanto?»
«A niente… amare serve solo ad amare».
 
 
 
 
 
 
Si scrive, e gioisci. Questi i patti,
le lettere cui dovrai perdonare
la grafia incerta e il pianto, il sangue,
il dolore confessato. I discorsi
ripetuti cancellati sulle righe e
se scrivo “amore” si alza in te
un stormo gagliardo di parole
               trite
«ma non ardo di te»
e lo dico con freddo calcolo
per tenerti alla mercé ripetendo
che ancora non si è deciso
cosa sei cosa vuoi cosa siamo
 
 
 
 
 
 
[Foglietto lasciato accanto al telefono]  
Sposa mia, che porti l’improvviso
svolgersi delle stagioni, del mio tempo
bella più d’ogni creatura bella,
il tuo sorriso è una falce
spietata sulla notte e sulla tristezza.
Ma non per me. Ti aspetto, e non ho pace.
Tutto di te è sconosciuto, il tuo sorriso
è mistero, ma presto l’assenza s’involerà
nel cielo nel tempo lieto della buona fine
nostra fine
                         (Amare essere amati)

 
 
(Vincenzo Lisciani Petrini, Amare essere amati, peQuod, 2022)
 
 
 
 

Lo sconvolgimento dell’attimo del reciproco innamorarsi, il suo viluppo incendiario e appassionante, la progressiva consapevolezza della vanità del tentativo di comprendere, conchiudere e perpetuare questa dinamica irripetibile e istantanea; questi alcuni degli aspetti su cui è possibile soffermarsi leggendo questi testi di Vincenzo Lisciani Petrini, tratti dalla raccolta “Amare essere amati”, sintagma che rivela, dietro l’apparente semplicità, il miracolo della biunivocità, della vicendevolezza, che muta il sentire amplificandolo a dismisura, fino all’attimo splendente della cenere, fino alla consapevolezza rinnovata dell’incapacità del linguaggio di restituire queste dinamiche con la precisione necessaria a coglierne le sfumature più preziose, e allo stesso tempo più provvisorie.

Innamorare” e “innamorarsi” vanno di pari passo, concedendo in rapida successione l’esperienza del “tutto e poi il niente”, tra ore che “scorrono lente” e “poi di corsa”.

Questa danza del raro perfezionarsi dell’incontro – che se anche avviene è destinato a risplendere e rapidamente svanire – “a cosa mai servirà…?” – “A niente” risponde l’io del testo, se non “ad amare”.

Il sentire l’altro e percepire l’esperienza del sé attraverso il riflesso vissuto dall’altro (sentire attivo e sentire passivo, si potrebbe azzardare, quasi un sentire essere sentiti che riconduca l’esperienza relazionale ad unità) diventa in qualche modo prospettiva di senso, orientando l’esserci al di fuori di un esistere che nasca e muoia a partire dall’io, verso la migliore idea di un noi.

La gioia della scrittura (che può consentire di rivivere gli attimi trascorsi e ormai perduti, cristallizzandoli nell’ideologia della parola) è gioia “cui dovrai perdonare / la grafia incerta e il pianto, il sangue, / il dolore confessato. I discorsi / ripetuti cancellati sulle righe”: l’insufficienza della forma scritta a replicare un’esperienza simile è resa con particolare efficacia di “parole trite”, ove si intuisce il sentire così afflittivo ed intenso e il dire “con freddo calcolo” la negazione dell’incanto, “per tenerti alla mercè ripetendo / che ancora non si è deciso … cosa sei … cosa siamo”. Come se fossimo noi a poterlo decidere.

E con ancora maggiore efficacia questo cortocircuito tra parola e sentire si realizza nell’ultimo dei testi selezionati, che dal dire i “discorsi … cancellati” li mostra graficamente, proponendo una lettura a più strati in cui la sottrazione vince sul desiderio: “l’improvviso svolgersi del … tempo” di questa reciprocità, da cui ha preso avvio questa riflessione, si risolve in un “sorriso … falce / spietata sulla notte e sulla tristezza”. Una gioia terribile e impossibile da evitare, senza pietà e senza pace, la cui assenza si risolve “nel tempo lieto della / nostra fine”.

Ed è forse questo finire, che accomuna le più incantevoli manifestazioni dell’esserci e dello svanire, ad evidenziarne la fragilità bellissima e tremenda, e tutta la forza del loro rapido incantarci per sgretolarsi nel mai più: amare essere amati, un attimo che avviene e non ritorna, la cui attesa non ha pace, mistero che si esalta nello splendore del proprio finire.

Mario Famularo