Il Poeta e la sua Signora – Vita e Poesia di Clemente Di Leo – Margherita Venturelli


Il Poeta e la sua Signora - Vita e Poesia di Clemente Di Leo - Margherita Venturelli

Il Poeta e la sua Signora – Vita e Poesia di Clemente Di Leo, Margherita Venturelli (Casa Editrice Carabba, Universale Carabba, Lanciano, 2013).

È prefato dalla preziosa penna di Renato Minore, Il Poeta e la sua Signora – Vita e Poesia di Clemente Di Leo, il bel libro della friulana Margherita Venturelli. In sostanza, Margherita Venturelli si adopera per ricostruire, passo dopo passo, la vita di un poeta e di un uomo, entrambi uniti dall’amore per la loro Signora, ovvero per la Poesia. E, per far questo, l’autrice del libro si affida a testimonianze di amici o critici di Clemente di Leo, tra cui spiccano sia il noto poeta lancianese, Giuseppe Rosato, sia il professor Bartolo Iossa. Quest’ultimo racconta e dell’umorismo e della spiccata sensibilità del poeta, servendosi di aneddoti squisiti e, al contempo, commoventi.

Il libro si lascia leggere piacevolmente ed è adatto sia a chi intende informarsi per mezzo di una lettura che ha uno scopo divulgativo sia a chi è invece desideroso di approfondire, in quanto si tratta di un saggio in cui, abilmente, «vengono intrecciate la biografia, la lettura critica, le testimonianze in un percorso che appare ben delineato, con molte citazioni opportune che permettono di entrare dal punto giusto, e nella giusta distanza, dentro la poesia di Di Leo», come ricorda Renato Minore.

Il postfatore del saggio, Bartolo Iossa, scrive che tra «Margherita Venturelli, interprete, e Clemente Di Leo, poeta, si stabilisce una coinvolgente comprensione circolare che finisce per avvolgere anche il lettore. La tangenza tra l’autrice del libro ed il materiale esaminato dà vita ad un nesso dinamico-strutturale in cui le singole liriche si collegano all’intero poetico e, a sua volta, l’intero trae alimento da esse. Il significato di ogni componimento viene raggiunto dalla Venturelli attraverso la relazione con gli altri e, insieme, con l’intera aura poetica. […] Entrambi, interprete e poeta, sanno che proprio di fronte alla “impietrata lava”, la ginestra alza il suo canto».

Il libro è organizzato in diciannove capitoli ed il primo di essi espone ai lettori la vicenda che portò in prima persona l’autrice a scoprire ed indagare i versi del poeta abruzzese. Un incontro avvenuto per caso (o per volere del fato?), quello tra l’autrice di questo libro ed i versi di Clemente di Leo (Colledimacine, 30 marzo 1946 – 5 luglio 1970), durante un viaggio compiuto dall’autrice in Abruzzo, terra che «si staglia nell’azzurro» della «Maja Mater, la Maiella del versante chietino settentrionale con Bucchianico, i Calanchi, la Calcaria, Guardiagrele».

Nel secondo capitolo, intitolato A Colledimacine, l’autrice individua ben tre punti nevralgici che pulsano e si snodano attraverso la figura del poeta che abitò nella Contea dei Ginepri («luogo ideale e reale insieme»), ossia: anzitutto, il suo paese d’origine (Colledimacine, appunto); in secondo luogo, l’autodidattismo (dal momento che «la formazione letteraria del ragazzo, costretto dai problemi di salute a lasciare la scuola alla fine della prima media, si compie al di fuori delle mura accademiche: egli si fa una cultura da sé, in un percorso di letture spontanee ma non casuali»), e per finire la sua prematura scomparsa (Clemente morì a soli ventiquattro anni).

Dunque, se diversi capitoli sono dedicati ad una ricognizione sulle opere che il poeta abruzzese pubblicò in vita, a sue spese, spesso indossando degli pseudonimi (si pensi a quello del presunto prefatore Fosco o al fittizio poeta Rocòvic, che Di Leo indicava come suicida), altri capitoli sono dediti alla più acuta ricostruzione possibile della personalità multipla del poeta: salpando dalla sua prima esperienza amorosa per approdare alle successive considerazioni sul suo personalissimo modo di intendere il poetare come fosse un vero e proprio impegno civile.

La Venturelli prende per mano il lettore per introdurlo ad alcuni testi del poeta della Contea dei Ginepri, e per mostrargli quanto Clemente, detto Dino, fu avvezzo anche alle prose poetiche, ricordando che alcuni critici ne compararono la bravura persino a quella di Cesare Pavese. Ella si concentra sul poema in prosa I vinti, in cui, come preannunciato dal titolo, Di Leo condensa vaghe reminiscenze verghiane, ma Venturelli spazia oltre e presta attenzione altresì alle prose Ivana Petrovna e Il figlio di Khalì, edite a firma del fittizio Dino dei Pizzi (ovvero, uno dei tanti pseudonimi con cui Clemente adorava firmarsi).

Venturelli analizza lo stile di Clemente in più passi del libro, senza privarsi di sfoggiare il suo acume interpretativo, come si legge qui, a pagina quarantasei, nel capitolo dedicato a Frantumi di una reggia azzurra. Poesie-quasi un poema (Fr.lli Muscente, Milano, 1966), la terza raccolta di Clemente di Leo (nello stesso anno alcuni testi tratti da Frantumi confluirono peraltro nella rivista fiorentina Il Ponte, fondata da Pietro Calamandrei nel ‘45): «Dino sorprende per la scelta arguta degli idiomi: proprio di contea parla, assegnando dunque ai luoghi un respiro nobile, anzi regale. Vibra di tutto l’amore di figlio, questo sguardo azzurro ch’egli posa sulla sua terra, fatta di dirupi, manciate di case, desolazione e rabbia ma anche prati in fiore: “in alto c’è la luna d’aprile / e corre nell’aria un fremito di giovenche sciolte”, per citare un verso che ricorda da vicino l’Alceo di Già sulle rive dello Xanto: in questa fase, tradisce d’altronde ancora una certa vena lirica classica nel descrivere i luoghi di appartenenza, come se li vedesse davvero dall’alto, in volo; metterà a fuoco presto il suo binocolo e coglierà i dettagli realistici della contea. Non è difficile riconoscere il tracciato del milieu letterario di Di Leo: dai lirici greci fino a D’Annunzio, a scrittori sociali come Verga. E tuttavia mi limito a rilevare che inscrive nella seconda sezione, La mia reggia – quella in cui per intenderci brillano come un gioiello i versi di Dirupi d’Abuzzo – tre poesie, una triade, dedicate al Sud, Siamo gente dura, I resti del Sud e Le madri del Sud, rapide ed efficaci pennellate della lucida idea che Di Leo aveva di quella decentrata fetta di Italia: il Sud è una terra in cui difficile è vivere, tanto da essere ai limiti della sopravvivenza; ma il poeta lascia fuori dalla porta ogni autocommiserazione e rivela l’orgoglio e il senso di apparenza che troveranno ampia definizione nel poemetto I Patriarchi della raccolta Una lunga puzza, appunto un paio di anni dopo».

Un altro passo molto interessante è quello racchiuso tra le pagine del diciottesimo capitolo, Essere-per-la-poesia, in cui l’autrice imbastisce un confronto tra Di Leo e il contesto della poesia italiana novecentesca, senza allontanarsi troppo chiaramente da Montale: «La parola è la cosa, va restituita alle cose, che in Montale sono i limoni, gli ossi di seppia gettati sulle rive della sua Liguria a cavallo delle due guerre; in Di Leo sono le rocce, le fave, dell’Abruzzo degli anni Sessanta. Montale ha indirizzato l’indagine, a partire dagli anni Venti per oltre un sessantennio, verso il vuoto in cui era precipitata la parola poetica, sull’impossibilità di dire, procedendo dunque per negazioni: “Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. […] Dino è, al contrario, tutto concentrato nel dare definizione delle cose procedendo per asserzione. Adottando il metodo empirico che gli deriva dal mondo cui appartiene, fatto di oggetti, di sensi, di gesti, può dire solo ciò che è e ciò che vuole. E qui si chiude ogni altro accenno di confronto, peraltro criticamente insostenibile. Di Leo è l’esperienza: nel suo linguaggio si rinnovano e pulsano le esperienze che quotidianamente viveva dentro al suo mondo, da quelle squisitamente letterarie – i libri che leggeva – a quelle latamente sociali: egli è Montale e nel contempo i Beatles, nel senso che su di lui ha agito la rivoluzione compiuta nella parola poetica dal poeta ligure contro i “poeti laureati”, tanto quanto il ritmo degli anni sessanta che ha raggiunto anche lui, attraverso la finestra lasciata consapevolmente spalancata, e passando attraverso, come s’è detto, i poeti del ventennio russo. È esperienza. Partiamo da un dato che emerge inequivocabile fin dal primo approccio con lui: l’urgenza di dire. Si sentiva braccato dalla poesia. Va tuttavia precisato che non si ha a che fare con il vate invasato della seconda metà dell’Ottocento. Non c’è simbolismo, anzi: direi ch’egli ha compiuto il processo contrario, liberando le cose dai lacci evocativi con cui i simbolisti le avevano soffocate. […] Per lui la poesia è nel dire, nella parola che dice le cose egli coglie la manifestazione delle cose stesse. È un poeta epifanico, non un vate. Ma non si colloca neppure al di sopra della parola: fare poesia è il suo modo di comunicare la propria esperienza esistenziale. Non fa poesia per fare arte: egli resta al di qua dell’arte. Lo afferma lui stesso, quasi gli prema fugare qualunque equivoco in merito, alla sua prima prefatrice Edvige Rossi Lamberti: “Non scrivo per far poesie: scrivo per una esigenza di riflessione personale (…). Non appartengo alla poesia delle lettere ma a quella vissuta”».

Giustamente, Margherita Venturelli sostiene che se le opere di Di Leo che hanno concesso un po’ di notorietà a Clemente di Leo sono quelle edite tra ’68 ed il ’70, anno di morte del poeta (che si spense molto prematuramente), si commetterebbe un’ingiustizia nel disdegnare ciò che di notevole trapela dalle prime pubblicazioni del più acerbo Di Leo, giacché è possibile rintracciarvi – e Venturelli ce ne dà dimostrazione –, «il tracciato culturale, quantomeno la base di letteratura italiana ch’egli si era fatto. Quanto egli abbia masticato in particolare il D’Annunzio di Alcyone, il Leopardi de L’infinito e il Dante non solo della Comedia ma anche stilnovista, così come il Petrarca del Canzoniere».

Eppure, nelle opere di Clemente di Leo confluisce anche la poesia straniera del suo tempo, quella americana, dei Beat; difatti, la Venturelli ne individua le caratteristiche, invitando il lettore a riflettere che in sottofondo, in Di Leo, è possibile rintracciare pure diversi elementi di gusto virgiliano, nascosti tra le righe della chiusa di Ultimi versi:

 

«Sera, fresca visiera che mi stai sugli occhi
senza passare alla cassa, ovvero, tenda di muschio
nero avvitato alle stelle per il sonno profondo
dei ramarri, sera, se la tortora in tua gloria
pone il capo sotto l’ala, io schiaccio il naso
sui giunchi penetrando in una radio accesa grande
come una valle»1.

 

Questi versi sono stati pubblicati in volume dall’editore Bastogi; a chiusura della pubblicazione in questione – peraltro prefata da Giuliano Manacorda –, è stato introdotto Arlecchino, un testo teatrale (in atto unico), che – ipotizza Venturelli – probabilmente Di Leo scrisse ispirandosi ad un suo stesso, precedente, componimento omonimo.

Nel diciassettesimo capitolo, Margherita Venturelli procede con il farsi carico della restaurazione di una parziale biblioteca del poeta dei dirupi abruzzesi, ricorrendo a testimonianze di amici del poeta e del ricordo della madre di Di Leo (la signora Marianna Delli Pizzi), rintracciando delle somiglianze tutt’altro che casuali tra quest’ultimo e due poeti russi, Sergej Aleksandrovic Esenin e Majakovskij, poiché quando «Dino accorda i versi che compone al tono sarcastico e pungente, mostra di tenere in tasca un altro poeta, sempre del primo ventennio russo, ovvero Vladimir Majakovskij». Venturelli si spinge in una comparazione tra i versi di Clemente e quelli dell’Esenin di Pugacev e quelli del Majakovskij di A piena voce.

Inoltre, Margherita Venturelli reindirizza l’attenzione di chi legge verso il fatto che «Dino accosta ed incastra i due livelli», sia quello socio-ambientale che quello più raffinato (appreso da autodidatta con la lettura), «anche sul piano linguistico: in casa parla rigorosamente in dialetto ma quando scrive usa solo – salvo in una rarissima occasione – la lingua italiana, senza tuttavia rischiare scissione schizofrenica, e trasferisce la scioltezza e la quotidianità che gli deriva dal parlato nelle pieghe del linguaggio evocativo della poesia. L’ambiente rurale è cantato da Esenin come la grande Rus’, il villaggio ha l’ampio respiro del cosmo. Parimenti, Di Leo non canta il mondo rurale dall’alto bensì dall’interno: se ne sta disteso in un campo di fave e ne fa il suo punto d’osservazione del cosmo; o tra le piante e i fili d’erba, come un animale. Di Leo è sempre fedele alle cose, le cose-icone- che sente dalla nascita perché vi appartiene. È un elemento, questo, che attraversa tutta la produzione poetica, prima e dopo Frantumi».

Infine, è da segnalare che nell’Appendice a questo utilissimo ed elegante, ma sobrio ed emozionante libro, il lettore troverà un prezioso elenco di alcune tracce leopardiane (e non solo) che Margherita Venturelli rintraccia in alcuni componimenti poetici di Clemente di Leo, mettendoci dinanzi anche al Di Leo più lirico e romantico, e non solo al Dino degli epigrammi o a quello polemico e comunista del discorso Scopriamo le carte (aprile 1970), partecipe del dibattito promosso dalla rivista «Dimensioni».

Vernalda Di Tanna

 
 
 
 
La morte
 
Educate i bimbi alla morte.
È irreale l’unica cosa vera
ma lì scoppiano i colori della vita
da lì ogni uomo è un atleta.
 
 
 
 
 
 
Ti dico viviamo
 
Ti dico viviamo.
Non abbiamo nulla da perdere
tutto è perduto in partenza.
I manichini di gesso
hanno di cuori scala reale:
ci restano quattro mani di glicini
da consumare sul tavolo bianco.
 
 
 
 
 
 
Il mio debole
 
Il prato del silenzio
è il mio debole.
In questo lago di bellezza
ogni atto sembra
un salto di ranocchio.
Ma il sangue è anarchico
ed io ci scaglio sassi.
 
 
 
 
 
 
Notte abbracciami
 
Notte abbracciami
tagliami la testa.
Ci ho un putrido elefante
un carro di burattini
che sbandierano l’annuncio
“parlare al vento è da stupidi”
Avvolgimi serena
nel tuo lenzuolo.
Benché sappia il sistema
come è fatta la struttura
ti prego di bluffarmi.
Voglio sbattere la faccia
nell’acqua dei pantani,
avvoltolarmi per terra
come un asino aggredito
dalle vespe, e ridere.
Questa cretina di luna
si fa bella nei miei occhi;
non si vergogna di esistere
perché è senza cervello.
 
 
 
 
1C. Di Leo, Ultimi versi in Poesie, a cura di L. Romani, Foggia, Bastogi, 1985.