Mnemosyne – Michele Montorfano


 
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Si allarga. La chiglia deflagra, il midollo tocca terra.
La trachea è la pietra lucida dei tetti.
La gola che sprofonda, il vento che recide le finestre.
Urla: “Tagliatemi!” E le costellazioni si alzano in piedi.
 
 
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Lei, il disordine; la bocca spalancata; l’assenza di educazione.
Così grande che non può donare. Ugualmente tutto che non conosce libertà, scende nel lutto, nella debolezza, nel pianto.
“È la morte!” – gridano – “è il dolore!” E lei, nella sua ossessione, inventa l’illusione di essere la mancanza e che questo perdere, questo cadere senza tregua, questa totale impotenza, sia ancora, terribilmente, l’amore.

 
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Un giardino dove il vento divora l’erba, dove il muro che lo recinta è incrinato, violentato dalle crepe, dove un cancello aperto sotto grandi alberi, precipita nella luce che lo dissolve.
Ed è lì che accade. Qualcosa come le ombre, come una voce che si riprende; e ancora i tuoi capelli Lilith. E ancora la terra che scava, sanguinante, con il viso frantumato per cercarti, per cercarti con le sillabe spezzate; come questi sassi che sono ancora la tua colonna, questi colori, questa strada dove non si sentono più passi.

“Questo è lo scheletro troncato.
Questa è la mia lingua che entra in te, che ti svilisce fino all’indole.
 
Costruisci un verso come il resto di un incendio.”
 
 
 
 
Michele Montorfano, Mnemosyne (LietoColle, 2013)