Maria Grazia Calandrone

Bozza automatica 45

 

Michele Paoletti intervista Maria Grazia Calandrone

 
 

In questi tre testi lo sguardo di Maria Grazia Calandrone si posa sulla natura e sull’essere umano in un percorso fatto di echi e di intrecci. I versi raccontano in maniera quasi chirurgica la composizione degli alberi, loro anelli dorsali, il clamore degli stami, le processioni […] di corolle e fiaccole / di stimme nel nettario; tuttavia non c’è freddezza da laboratorio nelle parole usate bensì un calore vivo e pulsante e un invito: spogliarsi del nostro ruminare notturno nella morchia dell’anima per ritornare ad uno stadio fatto di istinto e di materia, indispensabile per entrare in contatto con queste perfette macchine da fiore. Nel secondo testo è ancora più evidente l’intento chirurgico dei versi, la descrizione di elementi anatomici ben precisi; ma si tratta anche in questo caso di una sorta di anatomia amorosa: il sentimento trabocca e oscilla tra due evidenze: l’inevitabile fine che aspetta ogni essere umano per estinzione deliberata del battito cardiaco e l’urgenza costante di aver cura della sua meraviglia e della sua ferocia.

 
 

Cos’è il bene morale che dà il titolo alla raccolta?

Il bene morale è quello che dovremmo portare gli uni agli altri: un bene etico, responsabile. Dieci anni fa ho intitolato un altro mio libro La macchina responsabile. Come tutti, ho le mie ossessioni: una tra le più radicate è la responsabilità dei nostri sentimenti, l’attenzione che dobbiamo al bene che proviamo e facciamo. Tradire o, peggio, rinnegare quello che abbiamo amato, oltre al male che arreca, ha la imprudente conseguenza di tradire noi stessi. Questo, per quel che concerne i micromondi privati. Ma l’etica del bene, nel libro, è ovviamente estesa alla storia, poiché la storia è agita da individui che, sommandosi uno all’altro, formano i popoli: scrivo dunque di Shoah, del Vajont, della Shoah contemporanea dei migranti e di singoli eventi come la misteriosa morte di Marilyn Monroe o il conflitto interiore di un padre indiano, cui è nata una figlia con otto arti – e tutto ciò a contrasto con un controcanto leggerissimo, infantile, che rappresenta la gioia alla quale abbiamo diritto, semplicemente per nascita.

 

Recentemente in una puntata di Qui Comincia (programma radiofonico in onda su Radio Tre il sabato e la domenica alle 6.00) ha parlato del concetto di gioia in poesia ed in questi testi, così come nelle sue raccolte poetiche precedenti, sono presenti numerose forme di gioia da quella amorosa al sentimento bruciante provato di fronte all’apparizione della bellezza del mondo. Perché è così importante per lei approfondire questo concetto attraverso i suoi versi?

Credo che il compito della poesia sia indicare la bellezza del mondo, insistere affinché ci accorgiamo del tesoro che significa essere vivi. Faccio un esempio concreto: in un ciclo di videointerviste pubblicate da “Corriere Tv”, che ho dedicato ai volontari di “Baobab Experience” (gruppo di prima accoglienza ai migranti), ho ripetutamente chiesto come mai gli ospiti, che hanno subito torture e ingiustizie per noi inimmaginabili e che vivono in accampamenti provvisori in non-luoghi extraurbani, affidati alla “compassione” (in senso etimologico) degli altri, sembrino felici, giochino a pallone, siano sempre cordiali. La risposta di Sonia Manzi è stata: “Perché sanno accogliere il poco che ricevono, come noi non siamo più capaci di fare”. Questo è tutto. Non accorgerci del bene che abbiamo è un insulto, appunto, morale.

 

Il suo sguardo in questi testi è sempre proiettato all’esterno, verso una natura traboccante di vita, lungo il corpo di una persona amata, sul paesaggio circostante. Il poeta dovrebbe essere un tramite per raccontare la bellezza del mondo senza cedere alla tentazione di ripiegarsi su se stesso?

Credo di aver già risposto. Inoltre, le poesie che parlano dei propri autori mi annoiano a morte, se hanno quel sentore di aria chiusa dell’io e gli autori non usano se stessi come un qualunque strumento simbolico, una chiave universale (pensiamo a Caproni). I poeti non hanno nulla di speciale, se non una feroce curiosità analitica (pensiamo alle scomodissime domande di Pasolini in Comizi d’amore) e la parola. E, poiché la parola è uno strumento potentissimo, è necessario utilizzarla in forma rivoluzionaria, se vogliamo contribuire alla costruzione del nido del mondo con la nostra pagliuzza. Come scriveva Robert Musil: “Estrai il senso da tutte le opere poetiche e ne ricaverai una smentita interminabile – di tutte le norme, le regole e i principi vigenti sui quali posa la società che ama tali poesie! Una poesia col suo mistero trafigge il senso del mondo… Se questo, com’è costume, si chiama bellezza, allora la bellezza dovrebbe essere uno sconvolgimento mille volte più crudele e spietato di qualunque rivoluzione politica!” Musil scrive che la poesia trafigge “il senso del mondo”, non il senso della nostra persona (avviene anche quello, ma come conseguenza secondaria) e lascia intendere che il senso del mondo sia la sua bellezza, e che questa bellezza sia sconvolgente ed eversiva. E quindi, come potremmo contentarci di contemplare uno specchio?

 
 
da Il bene morale – in uscita per Crocetti
 
Alberi
 
Essi hanno questo fiore dentro che comincia
con l’affermazione che non sanguinano,
ma hanno anzi una capacità variabile
di sopportare tagli
tra i filamenti vivi
con anelli dorsali e una frattura
marginale, con qualche escoriazione per il fuoco issato
una volta sulla bianca colonna del fusto come una bandiera di dolore.
Tutto portava una scucitura di silenzio
sulla corteccia: in quel punto
non passava più la voce.
Mimose e mandorli sono i primi a fiorire
ma tutti
se amputati, rimarginano in lance di fogliami appesi alla faretra dei tronchi con tralci portanti e un fresco e
vivo rampichìo di gambi
e un clamore di stami al culmine del pomeriggio
e un luccichio frontale, tutti sono strumenti per lasciare cadere
lingue e lamine
d’oro, processioni con croci bianche di corolle e fiaccole
di stimme nel nettario, sono cose cresciute per dare
e per dimenticare. Dimenticare come s’innestava la tua voce
nel nettario del cuore, come i regoli e i timbri
delle vocali fossero fatti per impressionare
il fiore maturo.
Essi sfiorano il cielo in formazioni audaci,
si avvitano
con una pacatezza e una competenza
perfette pure nell’evidenza del corpo ferito,
pure a bagno nel nero e nell’amaro
inverno. Dunque bisogna avvicinarsi a loro
senza il cupo ruminare notturno nella morchia dell’anima
ma come cinghiali, un entroterra bianco: essere terra
bisogna, sotto la loro macchina da fiore.
 
Roma, 23 marzo 2010
 
 
 
 
incipit. esumazione del corpo amoroso. lacerare
la guaina della memoria. esporre le lacune. vastità siderali del corpo amato. secondamento, al fine
della esposizione dell’intero
corpo amoroso
sul tavolo settorio. conta
delle lesioni di assestamento e delle distorsioni
della realtà. il seno sagittale della dura madre
origina a livello del forame cieco
e afferisce alla falce cerebrale. sia secondo l’amore
il pensiero. la comune malinconia di un dato: finire
per estinzione deliberata
del battito cardiaco. si riscontrano scorie di volontà
non propria, simili a imitazioni di un’idea
del mondo. scaglie plastificate di realtà
sulla dolce mucosa sublinguale. seno destro imperioso. cavalcatura del monte. lambita
rima del monte. una goccia
di sostanza vitale
brilla ancora
alla luce del tardo pomeriggio
estivo. seno sinistro
petroso. rima
che irrora la giugulare, raccolta
nella tunica esterna di una pelle ambrata
per un sangue perfettamente puro. nessuna carie. aggressione del lobo
tiroideo. avrò cura
della schiuma di neve dei tuoi sogni
e dell’arco sereno
del diaframma. l’impalcatura nervosa
degli arti inferiori
vibra come un elastico. un sorriso infantile. bianco come lo smalto di un lavabo. bianco come il tuo cuore
che tremava per l’accelerazione e ora posa nel cavo sternale
come una scheggia
calcarea. la concrezione del mio amore muto nel disco d’oro
che hai chiamato prevaricazione
si è scolpita nella cesura amara
delle labbra, bellissime. la comune evidenza di un dato: amare
questo vivido essere impermeabile. avere cura
della sua meraviglia e della sua ferocia. non esiste che questo sulla terra.
 
Roma, 10 settembre 2015
 
 
 
 
un paesaggio italiano
 
1.
in un’aria da fine del mondo cola il tuorlo del sole
e battezza i pratoni di Castel di Leva
coi mozziconi eretti delle rovine
 
brilla la sedia rossa nella cucina
che dipingemmo insieme in un pomeriggio di gioia
ed è tuttora un appezzamento di luce con figure
 
che selvagge coincidono con il carnaio dell’erba
sparso in basso tra i colpi dei battilamiera – scoppi
d’argento cupo e alto come dal marmo mattutino
s’innalzano le rose
 
 
2.
non si vedono ancora le montagne
tra i giacinti riversi per il peso dell’acqua di marzo
né alberetti macchiati di rugginoso muschio
e altre cose strette alla loro polvere, ma
 
un bianco cane intero
con il muso proteso dentro un timido sole, un baluginante
sporgersi di umidità naturale dai barlumi del giorno
andato via tra fiammeggianti spighi di ginestra
 
Roma, 18 marzo 2013