L’ora di chiusura, Vittorino Curci (la vita felice 2019).
“La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”. Con questa frase di Mahler si apre il libro di Vittorino Curci “L’ora di chiusura” il quale omaggia lo stesso Mahler con il titolo alla prima sezione “Custodire il fuoco”. L’essenza della poesia è custodire il fuoco. Da una parte il fuoco è da custodire, dall’altra il fuoco è una minaccia. Nel mezzo c’è tutto: tutta la poesia di cui vogliamo parlare, tutta la ferita in un “tempo che svenduto le nostre illusioni/ senza comprenderle”.
Quanto più andiamo avanti nella lettura del libro tanto più ci troviamo come dietro a una macchina da presa che non mette subito bene a fuoco l’immagine, immagine che invece si chiarifica alla fine di ogni sezione: “all’inizio non era così chiaro/ i richiami sfaccettati del fuoco/ tralucevano in un luogo fatiscente/ invaso dalle erbacce”, in un progetto bene preciso di chiarificazione. La poesia di Vittorino è un lungo percorso verso la chiarificazione.
C’è una prossimità sorprendente con il libro precedente “Liturgie del silenzio”. Pensiamo ad alcune parole chiave come liturgia – fuoco – visione – custodire. E questo dà l’idea di come Curci stia in realtà scrivendo un grande lungo libro.
Ma la chiusura cos’è? È un congedo? O un disegno, un punto su un foglio che elude in un certo senso il nulla? Potrebbe essere una interruzione o uno smantellamento. L’ora di chiusura è anche un movimento, un momento/movimento all’interno del quale succedono tante cose.
Il libro di Curci – in generale la poesia di Vittorino – è una poesia che fa molto i conti con il rapporto interno/esterno come se ci fosse continuamente una diffrazione tra l’io interno e l’io esterno: “la notte resta impigliata nei vestiti/ fuori, non siamo che noi/ sotto mentite spoglie”. Eppure non si tratta dell’io che vedono gli altri ma un io con cui dobbiamo fare i conti noi stessi. Ne viene che la poesia di Curci si mantiene alla lettura sempre su una sorta di bilico, raggiungendo vette enormi. Una poesia che non può prescindere dal rapporto con la musica e d’altra parte il canto è l’espressione di affetti messa in forma poetica. C’è sempre qualcosa che ci tiene a terra minacciando il senso di grandezza che ci viene dalla visione del mondo esterno, delle cose del mondo, dell’infinito. Noi abbiamo bisogno di minacciare l’idea di infinito in un certo senso. Il fuoco della poesia di Vittorino è questa continua minaccia. C’è come una consapevolezza del terribile: “la parola cade sul foglio/ per scaricare il peso di mille storie/ sembra una preghiera stare qui”. Anche la preghiera è un canto, anche quando il verso si dilata e si fa narrativo.
Se da una parte abbiamo la custodia del fuoco e dall’altra la minaccia del fuoco, la ferita che sta al centro non può che essere il destino di questo libro. Non c’è molto spazio per la neutralità. Eppure la scrittura di Curci è anche una scrittura del perdono, del perdono come sgomento: “tutto ciò che è vivo è puro suono”.
Melania Panico
abbiamo detto poco, il tempo ci è testimone
il tempo che ha svenduto le nostre illusioni
senza comprenderle
è stato un duro esercizio di pazienza
ma se si guarda la scena dal basso verso l’alto
è tutto più facile, più chiaro
dovremmo tornare indietro di qualche anno
quando nella rovente cornice dei balcani
dalla rimozione al dono il passo era breve
si salutano a malapena oggi
i ragazzi del rione cappuccini.
le loro figure si fondono
contornate da onde che ravvivano
i colori dei bambini imprigionati
in corpi trasandati e sfatti
dal tempo trascorso invano
sui marciapiedi solo facce tristi.
nessuna voce, nessun lamento.
forse un giorno sapremo
che non tutto era perduto
sono nel momento che ricorderanno,
nella gioia di un presente che esplode
tra due secoli.
erano e sono i pensieri di un bambino.
una meta sperata, una data.
mai, non potrei mai girare
questa pagina. chiudo gli occhi. esco
in silenzio