la liturgia dell’acqua
pianissimo la bocca
quasi un senso nudo
Un pentagramma tessuto da un filo di seta e d’oro, musica. Rime interne al verso, assonanze, allitterazioni, spazi bianchi che sanciscono pause di silenzio, una vera cerimonia con i suoi atti e piccoli oggetti di culto. Ritmo, magia di luoghi, colori, sapori, tutto suona in una nota sempre diversa. L’originalità, che contraddistingue la scrittura di Daìta Martinez, nell’ultimo libro, Liturgia dell’acqua, pubblicato da Anterem edizioni, 2021, si sposta nell’umano e nel corpo delle cose.
Nei versi serpeggia la nostalgia del passato e il desiderio di ritrovare l’infanzia, in questo ultimo libro, ancora più onirico e surreale dei precedenti, sono le cose a praticare quello che l’umano non ama più fare, l’infinitesimo occupa la scena in un tempo in cui la realtà è rinnegata.
In questo mondo dove la fiaba accade è possibile intercettare uno sbuffo di piatti, un mento blu di nuvole sopra la bocca del sole, il pettinino madreperla di Dio, angeli, trottole panciute e molto altro.
Una dimensione senza tempo che fonde presente e infanzia, l’origine, culla della parola e terra dove la poetessa nasce e si muove, respira e fa respirare.
I versi diventano blocchi compatti che sanciscono un ordine e un’uguaglianza delle parole, non esistono maiuscole, né una punteggiatura, solo un confine invisibile, un orizzonte di protezione ripetuto, cercato con rigore e come dice magnificamente nella prefazione Maria Grazia Calandrone, materia quantica. Come per la Rosselli anche per Daìta l’unità base del verso non sembra essere né la lettera né la sillaba ma la parola intera. Lunghezze e tempi di versi sono definiti e coincidono con lo spazio-tempo occupato dal primo verso liberamente definito dall’autrice.
Ma se un paragone può farsi con la Rosselli è solo per la disposizione, l’unità e l’autonomia dei versi che compongono il singolo blocco, per il resto l’identità poetica originale e riconoscibilissima è quella propria della Martinez, più incantatrice che mai.
Le parole si aprono a un senso nuovo, mai domito, significati ulteriori si nascondono dietro ogni vocabolo “granendo” ricchezze irrinunciabili.
Talvolta, il dettato poetico è attratto dal magnete del nonsenso, un nonsenso che è sostanza di cui è composto il sensibile, scrittura caleidoscopica che fonde suoni e cose e che di tanto in tanto sfugge alla comprensione coltivando giardini misteriosi e ammalianti.
Il lettore deve perdere la sua pigrizia per ritrovare la poesia, Daìta ingaggia così una lotta contro la pochezza e la banalità dei significati, contro una lingua sterile, la parola fiorisce in una terra fertile che genera continue bellezze.
La sua dichiarazione di intento poetico, a mio avviso, va ricercata nell’assalto della parola che deve granire e difendere i sogni dal rumore per farsi terra e sponda e partorire
un obliquo l’assalto
dei granisci difende
ventre rosso i sogni
dal rumore era sola
sponda a partorirsi
Una denuncia contro il paradosso del bene reso inutile dalla società, “L’utile” dove disperdiamo ore e l’intera vita è inutile, il vero utile è “nell’inutile” nelle piccole cose, nei quanti a cui l’autrice si aggrappa. Il senso pieno dell’essere vita, di essere nella vita, è negli occhi che serbano, nel cuore, negli oggetti minimi e nei luoghi privati dove “pioggia il coro degli uccelli”.
Emilia Barbato
di come aria la stanza senza scampo
la televisione nel mezzo il petto dei
cassetti è il perfetto nascondiglio si
vorrebbe di bellezza a mezza voce o
piccolo vento agli occhi una farfalla
tremula chioccia al primo sonno
la contraddetta inautentica voce
il ripiano amaranto lo specchio e
la parte degli alberi sorta a fondo
l’inutilità del bene e non è ancora
pioggia il viso quel toccarsi lieve
lieve di promessa fiorita nenia da
piccola era al seno che mi smetto
tu
di tu
nuvola capovolta tra la guancia
sorpresa a molla d’un posanome
senza audio in più angoli di film
per nulla in bianco e nero lenta
tenerezza tenta attenta l’infinito
sono quel niente di riso sul viso
alla tua bocca se scotta l’attiguo
la grandinata riservatissima nel
fondo blu naïf del leggero baule
che ci spoglia d’odore e l’odore
delle trombe degli angeli tutt’un
fiato alla ritornata trasparenza
l’insolito piano del nostro castigo
a mano recidere dovrebbe qui silenzio
e s’allaga e s’ombra e non muove da
muovere che s’inverna minima chiosa
la cena dentro l’arcata al di dentro dei
limoni tondi rotonda una caduta tonda
ripasso sparso lì sparso che si dice sia
l’avverbio a frugare tra le gambe il sole
bambino per strada e qualche moneta
avvolta sulla pancia di una trottola la
primissima volta di un bacio il risvolto
del soggiorno la luce di traverso come
ombelico mangiato d’un fiato col fiato
morbidissimo la tazzina del caffè quel
primo piano dimenticato che nascosto
si lascia ninnare dalla tenerezza di Dio
la fioritura del ciliegio l’incantesimo
di una cantilena e nella danza di una
trottola il vento tutto sul viso di aziza
come ieri e ieri l’altro non era la cesta
dentro la casa dei fornelli delle parole
dei piatti a sbuffo e blu il mento tra le
nuvole sopra la bocca del sole ninnata
ai campanelli delle persiane svoltate a
festa per ancora un sorriso sulle ciglia
il dono d’uno scoiattolo la leggerezza
di una piuma tra le gambe del basilico
ché lasciarsi un po’ dimenticare dalla
paura ha soave sapore d’un sì d’amore