Caccia di sera
lo stridere delle rondini
si salda con tutti questi insetti –
inconoscibile la strage dell’impatto
solo la sorpresa dei passanti
il loro seguire con le mani
questo andare a cappio
ognuno nel proprio posto adatto
chi nell’aria chi nel ripetere
ogni atto
e crearsi inferni in proporzione
vivi ancora di una vita a brani
i moscerini volano a scarabocchio
nessun andare si riannoda
ne ha pace nella conclusione
Imbrunire a Trieste
Genius loci
ritorna il territorio conosciuto
l’odore non si scorda
si sistema scruto nelle braccia
ormai non conta niente –
abbiamo pagato per vederlo
dritto in faccia
senza la bellezza delle cose
un buio che inghiottisce
interi anni in un momento solo
riprendo un posto non più mio
un altro domani ma non ora
ora si schiantano io passati assieme
ogni avvicinamento
una cancellazione
Conegliano Veneto dopo cinquant’anni
Senza fili
baciavo la rivincita
tu invece il bulldozer
con cui ti spianavi
una volta staccati
cadevamo senza fili
senza canovaccio
Punch & Judy senza dubbio
distanti tra i cuscini
era il corpo dopo
una reazione termica
cercando la solitudine per morire
da soli non possiamo
nowhere
Ennesimo trasloco
sono tornato a stare qui
con gli anni alle spalle
le date sempre più distanti
distanti da smarrirsi
ero io. quanti anni fa.
tanti discorsi fa.
il tempo saldo
corrode senza incertezza –
non mi corrispondo più
ma mi ostino a vivere
sperando se ne sciolga il senso
o mi riveli il vero
gli occhi annaspano
pescandone il ricordo
il ricordo ormai odore
riposto con quasi cura
‘quasi’ ecco, quasi non più vero
Piazza tra i Rivi, Roiano
da Alle spalle delle cose (Vita Activa Nuova, 2022)
Essere nei luoghi, essere i luoghi. Sandro Pecchiari torna in libreria, come bene dice Mary Barbara Tolusso nell’articolo del 17 novembre ne Il Piccolo di Trieste in occasione della sua presentazione a Una Scontrosa Grazia (a cura di Mario Famularo), esattamente a dieci anni di distanza dal suo primissimo Verdi anni (Samuele Editore, 2012, collana Scilla, prefazione di Roberto Benedetti). Dieci anni di poesia continua e ostinata in ben otto libri (in Italia e all’estero), meravigliosamente ostinata, come un’àncora da lanciare per fare il punto sulle cose, sulla vita.
Similmente all’àncora la poesia ha bisogno di un buon fondale, di un buon luogo dove approdare. Fin dai tempi antichi sapere dove fare un buon ancoraggio ha evitato naufragi, ed è di fatto un caposaldo della sicurezza di chi naviga. Bisogna conoscere la costa (col vento e l’onda che vi si abbattono), il fondale, il metodo.
Ma nella vita tutto questo non di rado manca. Ti trovi nella costa ma non ti è dato conoscerla. Non vedi il fondale. Per quanto tu possa conoscere i metodi di ancoraggio la precarietà del luogo, del tuo stesso essere in quel luogo e del tuo essere chi sei in quel luogo, rende un azzardo ogni scelta.
Certo la poesia rimane, l’atto della poesia, che è il fermarsi dopo essere andati avanti per un po’. Un girarsi attorno, alle spalle delle cose per fare il verso a quest’ottimo libro di Pecchiari. E misurare la distanza o le similitudini dal precedente punto di sosta.
Essere nei luoghi, essere i luoghi, dunque. Perché un poeta non è mai solo una mente pensante, una memoria, ma anche ciò che osserva, che respira. Letteralmente ciò che odora. Già Pecchiari si era soffermato sui luoghi del disorientamento del vivere in Le svelte radici (Samuele Editore, 2013, collana Scilla, non a caso prefato dalla succitata Mary Barbara Tolusso) navigando tra Roma, Grado, Conegliano Veneto, Monaco, Orvieto, Winnipeg, Kenora, Trieste. Già aveva scritto Devo domandarmi come un fumo basso / in una sera umida / e diventare acqua per capire / questa cavezza di suoni sconosciuti. // Non sarò mai i pesci / gli uccelli di qui: / sono uccelli diversi questi, / confusi tra le cicaline dei semafori / però io così mi sperdo. […] e aspettare che tu rovesci / il sasso del mio corpo / e risciacqui il fango / dal mio dorso. (da Le svelte radici). Arrivando a far coincidere la disseminazione dei luoghi con lo spaesamento del linguaggio, che era esilio di sé. Un sé a cui restava come unica certezza una sorta di classicismo dell’approccio e della parola, perché laddove ciò che si vive non da certezze ecco allora che ciò che ci ha formato, la nostra impostazione culturale, diventa l’unico piano di esistenza dove sentirsi a casa (anni fa scrissi di questo qui).
Nei versi che presento (e che continuano la linea incisa nei libri precedenti, si notino ad esempio la quasi assoluta assenza di punteggiatura, o l’attenzione precisa alle allitterazioni) tratti da Alle spalle delle cose, vi è però una pacificazione raggiunta, non conclusa perché evidentemente in itinere, in evoluzione, sofferta perché consapevole del passato. Non a caso il luogo nowhere, facilmente identificabile come il luogo di un io che chiude gli occhi e le orecchie, cerca il puntino luminosamente oscuro di un ricordo (nello specifico, è opinione di chi scrive, alcune tematiche biografiche, non solo letterarie, di Verdi anni) che sia a sua volta identificazione con quel ricordo per occorrenze prettamente personali (si veda l’opera sulla malattia scritta e vissuta in Desunt nonnulla. Piccole omissioni, Arcipelago Itaca, 2020).
Vi sono ritorni, in questi versi, che nei luoghi (fra tutti, solo a mero titolo di esempio, Conegliano, che qui viene presentata come riprendo un posto non più mio / un altro domani ma non ora / ora si schiantano io passati assieme / ogni avvicinamento / una cancellazione, mentre nel 2012 era Un cielo vero sprofonda i voli / in alto in alto tra spirali inalberate, / nel gradiente ampio della caccia, / stridendo, irridendo, / rivelando rudemente / la distanza vasta e vuota / tra noi / e ciò che non vediamo) non appaiono più come schianti fra gli scogli ma come approdi. Temporanei? Precari? Può essere, ma sicuramente molto più accettati e pacificati (sono tornato a stare qui / con gli anni alle spalle / le date sempre più distanti / distanti da smarrirsi / ero io. quanti anni fa. / tanti discorsi fa // il tempo saldo / corrode senza incertezza).
Ed è forse questo il lungo percorso del vivere di un uomo. Opporsi alla marea, alle onde, spaventarsi, arrabbiarsi, disperarsi e ribellarsi ancora, fino ad accettarne le pieghe e le isole, le spiagge e le stagioni.
Alessandro Canzian
La foto di copertina è di Matteo Antonante
P.S. Con un po’ di civetteria, lo ammetto, e con l’amicizia che per tanti anni mi ha legato e che ancora nutre la mia stima per Sandro, ritrovo nei versi di questo libro, qui non citati nonostante si sia prediletta la cittadina giuliana, il Ghetto di Trieste: tra putti ghirlande e cornucopie / le sosteniamo in queste bugie innocenti / che sono fiaba o mito mentre la città cambia / e le radici hanno altre direzioni // capiterà che i loro nomi se ne vadano / fino alla domanda di qualcuno / ma chi sono quelli lassù, non si capisce / e noi percepiamo il peso dell’inutilità. Questo ghetto l’ho poi riportato io stesso nel mio Il colore dell’acqua (Samuele Editore, 2016, fuori collana, prefazione di Mario Fresa) in riferimento a una bella serata passata assieme: In fondo ci è stato utile tornare / al ghetto di Trieste. Lo stesso ristorante. / E parlare della morte di Fabrizio / e delle scale alla Sinagoga. La / barista ci ha offerto anche il dolce / ma proprio non potevamo – noi / ridevamo della ragazza con lo scialle / che passava tutta civettuola –. Sandro / dice è l’ironia alla fine che ci salva.