Liriche terrestri – Diego Conticello


Liriche terrestri, Diego Conticello (Industria & Letteratura, 2022).

Del libro di Diego Conticello Liriche terrestri (Industria & Letteratura, 2022, prefazione di Antonio Devicienti) colpisce subito il titolo, il suo contrasto semantico e simbolico: l’elemento terrestre, riferimento concreto al mondo in cui abitiamo, è accostato in veste di aggettivazione a un termine che afferisce alla sfera letteraria, quella lirica che è espressione della soggettività dell’autore. La matrice del libro sembra risiedere nella volontà di conciliare questa duplice attitudine, letterario-soggettiva e storico-naturalistica, e si conferma entrando nel vivo dell’opera. I titoli delle due sezioni in cui sono distribuiti i testi replicano l’abbinamento di concreto e astratto con la scelta dei termini radice e senso, disposti in ordine inverso a formare una sorta di chiasmo: Le radici del senso e Il senso delle radici. Non si tratta di un mero gioco linguistico, ma di una precisa direzione gnoseologica, una ricerca bidimensionale dei significati attraverso lo scavo nelle fondamenta della storia individuale e collettiva.

Le radici del senso è la prima sezione, nettamente più corposa rispetto alla seconda, e si apre con un testo in qualche modo programmatico. Dinanzi alla prospettiva della fine del nostro mondo si convocano legami e affetti per non cedere al buio: «La distruzione delle cose. // E i nomi lì a rifulgere / rifiutare di piegarsi, // di nuovo fare luce» (La distruzione delle cose). In ogni punto di Liriche terrestri il paesaggio naturale si attesta sia come sfondo sia come tessuto connettivo del discorso poetico, medium e correlativo di ogni riflessione, una sorta di ponte dal fisico al metafisico (“ognidove / abbasso / a vano / cilestre di conca lacustre, / rosato di seni montani / avvicinano ad un sacro /// vuoto: è seduti // sull’orrido precipiziale / che meglio s’intuisce / la vitale necessità / del silenzio // o la sua / scandalosa vigliaccheria”, Sacro vuoto).

Il motivo che ricorre, ora in superficie ora nell’ipogeo della scrittura, è la necessità di contemperare il lavoro sul linguaggio con la conoscenza del reale, e consentire la comprensione dei cambiamenti in atto, restando in ascolto dei segnali che provengono dall’universo: «Temete un tempo / immenso perché non sapete / assaporare nemmeno / il minuto che scorre / figurarsi l’era nuova ch’è sorta» (Ammonimento del tempo nuovo); «serbiamo il segno, / unica serie di curve / al limite del sensibile / nella sera del cosmo» (Cosmagonia). C’è un testo in particolare, dal tono esortativo, che risuona come una formula propiziatoria, un invito a preservare le qualità che ci fanno umani, indivisi dalle altre specie della terra: «Come le infestazioni / del ficodindia / proliferare / persino sui tettimorti, // sopperire al vuoto, / riempirlo col guizzo / che rialzi queste nostre vite / ammansite, // mettere le spine – se necessario – / degnarsi / per preservare quel poco di dolcezza / che ci cresce in corpo. // Il frutto squisito della mente, / la duramadre / vista oltre la scorza» (Sta a noi).

Da questi estratti emerge il carattere, originale e volitivo, della scrittura di Conticello. La misura del verso è per lo più breve o brevissima, in controtendenza con l’andamento prosastico e narrativo di molta poesia contemporanea. Perché qui l’accento è sul lessico, sull’unità linguistica, sulla sonorità del singolo grafema o di gruppi di sillabe generate per attrazione reciproca. Un esempio su tutti la poesia Luce larvale: «Guarda dilatarsi questa luce / – larvale convalescenza d’opale – / […] // schianto ventrale // […] // Arsa morsa ai polsi / farsi terra bruciata / delle idee».

La poesia di Conticello è un profluvio di invenzioni, parole composte che danno luogo a nuovi organismi, neologismi di derivazione classica, vocaboli desueti e preziosi, e non ultimi, termini prelevati dal dialetto siciliano. Il sostrato nutritivo del libro – la radice appunto – è rappresentato dalla tradizione letteraria siciliana e dal dialetto delle origini (Conticello vive nel comasco, ma coltiva fortemente il legame con la terra natale). Gli autori siciliani che si leggono in filigrana nei testi (Lucio Piccolo, Bartolo Cattafi, Angelo Maria Ripellino, Vincenzo Consolo, Lucio Zinna, Angelo Scandurra, Nino De Vita) sono stati oggetto di studio e a volte sono presenti come dedicatari delle poesie, in uno scambio sempre vivo tra dialogo e memoria. La seconda sezione, Il senso delle radici, è dedicata appositamente ai componimenti in siciliano, con accanto la versione in lingua (quattro testi, il primo dei quali mescola sapientemente i due vocabolari). Versi in cui il linguaggio si fa materico ed esplosivo, carico di espressività e colore, tuttavia scevro da ogni inclinazione nostalgica, anzi ben teso a raffigurare il presente. Liriche terrestri è la traccia di un cammino capace di svelare «quanta estensione / possa contenere il fruscio / della bellezza».

Daniela Pericone

 
 
 
 
La distruzione delle cose
 
Riflessi,
nuovamente piegati
soggiogati buoi/bestie
alla morsa del tempo,
al buio come morte.
 
La distruzione delle cose.
 
E i nomi lì a rifulgere,
rifiutare di piegarsi,
 
di nuovo fare luce.
 
 
 
 
 
 
Estetica dell’estensione
 
Passa il piede a
fatica lenticolare,
tentando di appianare
ciò che ancora ci separa – pare –
dallo spazio
di uno sguardo esteso,
la vana visione,
uno sforzo di tensione
quantomai assediante.
 
Strapparlo fuori dilaterà
questo nostro tempo,
svelando quanta estensione
possa contenere il fruscìo
della bellezza.
 
 
 
 
 
 
Cosmagonia
 
Se un’enorme massa,
una dell’infinita
gragnuola
trapassante le galassie,
sfondasse i fragili
veli sferici
ad un’ora, ad un tempo preciso,
avremmo un’altra Tunguska,
impensati megatoni
del tramonto.
 
Questione di traiettorie,
risucchi implosivi
per cui siamo
conigli abbagliati,
sagome inutili
inette a smuoversi.
 
Chimiche brillanti
attraversano le ere
proiettando particole, orologerie
cieche puntate nelle tenebre,
luci scottanti della fine
 
l’universo enfiato
in un punto
che tutto sugge,
il nero foro dei mondi,
ombra contratta,
nulla allo stato puro.
 
Oscureremo per troppa chiarità,
un collasso
per veemenza di stelle…
 
entropia
non è piacere
di belle metafore e brune
ma morte della luce,
fuga da grazia
materna,
totale penetrazione
del gelo.
 
In un grande strappo
il mietitore fosco
espanderà questa
illusione vitale
esternandola all’oscura potenza
 
sebbene
serbiamo il segno,
unica serie di curve
al limite del sensibile
nella sera del cosmo.
 
 
 
 
 
 
Sta a noi
 
Come le infestazioni
del ficodindia
proliferare
persino sui tettimorti,
 
sopperire al vuoto,
riempirlo col guizzo
che rialzi queste nostre vite
ammansite,
 
mettere le spine – se necessario –
degnarsi
per preservare quel poco di dolcezza
che ci cresce in corpo.
 
Il frutto squisito della mente,
la duramadre
vista oltre la scorza.
 
 
 
 
 
 
’U nièspulu

a Sebastiano Adernò

’U nièspulu stuòttu
e scaccagnàtu chi chiantàstivu
avanti ’a bbalàta d ’a to casa,
a vvia di ccuzzàti e putatìni
– ca paria ’u rridducìa nu scuòppu –
 
addivintàu abbulu rittu e rrisagghiàtu
di ranni ummiratìna
cchi ggiùmmira pinniènti,
 
e i so buttùna ggigghiàti
all’ùttima nivi supra ’e ramàgghi
e ’u ciàuru di ddi niespulìddi
risciàlunu ’nzinu li bbaccùna ’nfacci
 
d’un aduri chi sapi di carìzzi
e nuttàti di liatìni nne cantunèra.

 
 

Il nespolo storto/ e malmesso che avete piantato/ davanti al solaio della tua casa,/ grazie a tagli e potature/ – che sembravano ridurlo a un tronchetto –// è diventato albero ritto e possente/ di grande ombreggiatura/ con fogliame pendente,// e i suoi polloni germogliati/ durante l’ultima neve sopra le ramaglie/ e il profumo di quelle nespoline/ profumano fino ai balconi di fronte// di un odore che sa di carezze/ e nottate di gelate agli angoli (cantoni).