L’incoscienza del letargo – Mario Famularo

L'incoscienza del letargo - Mario Famularo

L’incoscienza del letargo, Mario Famularo (Oèdipus, 2018).

 

Leggendo L’incoscienza del letargo (Oèdipus, 2018) non si può non rimanere colpiti dallo sguardo chirurgico che Mario Famularo posa sulle cose e sugli uomini. Attraverso la lettura dei testi si assiste alla costruzione di un percorso di scarnificazione, con l’obiettivo di raggiungere un punto zero, un vuoto totale da cui ripartire. L’attenzione al rapporto tra uomo e assenza non deve però essere letta solamente in senso negativo: la visione orientale che ci propone Luca Cenacchi nella sua accurata prefazione legge il nulla, il vuoto come potenzialità, obiettivo verso il quale tendere per “creare un rapporto di continuità tra sé e il mondo”. La poesia in apertura può essere interpretata infatti come una sorta di testo guida che riassume in sé tutti gli elementi cardine dell’intera raccolta: il nulla, l’assenza, il vuoto ma anche l’esperienza stessa e non l’aspirazione, tema che ritornerà spesso nei testi di Famularo in luce negativa (la trappola delle aspirazioni, l’aspirazione […] stanca, l’aspirazione / […] polverizzata e / dispersa). Il percorso dunque, la progressiva eliminazione del superfluo e la presa di coscienza dell’estraneità profonda del [mio] corpo / ad ogni altra cosa / del mondo tenendo però presente che nulla crolla mai / davvero si crea / né si distrugge. Restano promesse di contagio, rare possibilità di condivisione di progetti e intenzioni, contaminazioni di carne e ragione costruite ricamando nei rapporti / il senso umano perché la propensione al bene / ci indirizza ed / avvicina. Dunque occorre risvegliarsi da questo stato di incoscienza-cosciente, da questo letargo che ci separa, che oscura la mente e le palpebre, smettere di esistere / alla deriva / delle cose e farsi travolgere dal flusso, imprimere una direzione tenendo presente che la vita non / ritorna. Raggiunto il silenzio, il punto zero, il vuoto assoluto è lì che si avvertirà il richiamo del presente, la necessità di stare qui e ora, abbandonare al rimpianto, stare nel tutto che succede / [nella] presenza che circonda / qualcosa che ci insegue.

 

Michele Paoletti

 
 
 
 
non la vita
non l’amore
 
ma il nulla che precede
l’assenza che s’insinua
il vuoto che
consegue
 
l’autentica esperienza
e non l’aspirazione
che crea la sua
presenza
 
 
 
 
 
 
un tempo l’uomo intendeva il respiro
della ginestra
la fragilità originaria
contatto leggero con la terra
il segreto innocente
del sussurro dell’iris
 
dopo secoli di rumore prepotente
per le strade
stanze di cemento bianchissimo
un’ordinata
mortificazione
 
la recrudescenza ostinata
di quella parola
nel silenzio della metropoli
che sovrasta
 
i fiori troppo limpidi
non parlano a voce bassa
tra gli ordinati salici
non basta più ascoltare
 
è inutile chiamarli
risponde il tuo riflesso
soffocati in un feretro
di galaverna e poliuretano
quei fiori sono
morti
 
 
 
 
 
 
l’ombra della mano
definita nel contatto
tra il nero e la sorgente
si scompone l’individuo
 
è mia la percezione
del calore sulla pelle
l’impulso sempre identico
la sua corrispondenza
 
la sagoma familiare
confrontata ad altri corpi
la condizione assoluta
di un’esistenza disgiuntiva
 
la maestà indecifrabile
con cui si rivela
l’estraneità del mio corpo
ad ogni altra cosa
al mondo
 
 
 
 
 
 
la parola è l’inganno
 
non importa
l’onestà della sua
bellezza
il veleno del suo
morso
 
smarriti
tra le architetture
di un ordito
ragionevole
 
trascuriamo
l’abitudine
l’effetto fotoelettrico
 
e contro ogni tendenza
l’impostura
del linguaggio
 
 
 
 
 
 
senza memoria
o aspettative
l’uomo si converte a un
vegetale
 
l’eterna percezione
del presente
 
eppure quel ricordo
rimescola le ombre
nel sogno di un’eclissi
trascendente
 
e quelle proiezioni
che si spingono radianti
che allungano
la presa
schifose
 
un fiore è disumano
ma molto più
terrestre