Limonio – Antonio Lillo


Limonio - Antonio Lillo

Limonio, Antonio Lillo (Pietre Vive Editore 2019).

In questi giorni di polemica (a dire il vero ormai un po’ stanca) su poetry slam, finte poetesse che vanno alla ribalta per il solo gusto di smascherare le dinamiche editoriali odierne, ho il piacere di leggere e recensire il bel libriccino di un amico e collega, Antonio Lillo, che come si suol dire zitto zitto buono buono è uscito a febbraio 2019 e ha dato concretamente un qualcosa in più su cui riflettere.

Perché oggi tutto si muove sulla direttiva dell’esposizione. Il poetry slam è vera poesia o cabaret? Il fatto di essere esposta la rende meno poesia? La poetessa che per alcuni mesi è rimbalzata da sito a sito ricevendo sonore stroncature e complimenti è veramente uno smascherare oppure l’ennesimo giochino trito e ritrito? E come una rivista un paio di giorni fa ha sottolineato è corretto smascherare le note dinamiche editoriali che si appoggiano a personaggi (che fanno vendere) invece che a libri se poi il caso stesso sta contribuendo a creare un personaggio?

Antonio Lillo non partecipa, da come lo conosco, a questi dibattiti ma pubblica un’opera, Limonio, che per la sua stessa esistenza risponde a qualcosa a cui non vuole rispondere. Perché Limonio è il libro di un poeta, di un Editore, e di un quarantenne (in realtà ha 42 anni) che nel 2019 si confronta con due mondi che non coesistono nella realtà, solo nell’impostazione culturale.

Andiamo con ordine. Antonio Lillo è un poeta e guarda i poeti. Li legge, parla con loro, intreccia amicizie. In qualche modo prende in giro se stesso tra stupore e autoironia considerandosi poeta. Tra le pagine appaiono testi in versi e prose che, in sordina quanto il libro stesso, afferrano Montale, Caproni, Giudici, Cappello, Sereni, Corazzini, ma anche contemporanei noti ed emergenti come Ferrari, Dal Bianco, Tosetti, Zuccaccia, e toglie loro ogni sfumatura di sacralità, di aulicità. Prende i testi dei poeti e, si veda lo stupendo brano in prosa dedicato a Cappello, li tratta come libri da prendere e riporre nel loro inevitabile silenzio. Toglie loro l’esposizione non solo considerandola cosa da poco, ma oggettivamente ininfluente:

 


 

Un tale silenzio mi ha commosso

Il giorno dopo la notizia, era lunedì, già pronto allo sciacallaggio editoriale che in genere si fa quando un poeta muore, passando in libreria ho chiesto quante copie fossero state ordinate dell’ultimo libro di Cappello. Nemmeno una, mi hanno risposto. Aggiungendo che Pierluigi era grande, ma non quel tipo di personaggio che smuove le masse, che richiama all’acquisto. La voce dei poeti cova nel silenzio, e anche lui se ne sta defilato, con la sua voce smussata com’è la ghiaia di fiume, persino qui, nella morte. Quel lunedì in particolare, un tale silenzio mi ha commosso. Ricorreva, infatti, l’anniversario della scomparsa di mia nonna. E mi accorgevo come, di quel giorno, si mischiassero nella memoria solo immagini a colori. Le Verdi colline d’Africa che stavo leggendo, e il rosa del gelato preconfezionato alla fragola di cui lei era golosa, in barba al diabete. Il cielo di un azzurro puro, profondo e ancora estivo ai primi di ottobre. Una sorta di sogno kitsch, anche nel lutto imminente. Poi le grida di mio zio: «Mammà, mammà». E il silenzio attonito di mio padre che spezzava il suono.

(pag. 84)
 


 

Così come ininfluente diventa il gioco della critica che, al pari dei poeti, viene senza mezzi termini dissacrato, privato anch’esso dell’esposizione:

 


 
Lezioni di stile a un poeta
 
Mi dicono che eccedo in punti esclamativi
e che la vera classe è data a noi poeti
da una voce piana, in media res, che non
chieda mai ragione in quanto sa. Già sa.
 
Io però di medio – poiché sono mediocre –
ci metto solo il dito, che mi scatta spudorato
per un verso ben riuscito. Il dito orgasmico
puntato verso il retto dei professorini…
 
(pag. 16)
 


 

Un atteggiamento non fine a se stesso ma motivato da una consapevolezza storica, da un’esperienza:

 


 
Mi tengo cheto e muto
 
Più spingo a fondo l’occhio di «veggente»
meno lettori avrò, cara poesia. Poiché
non è di tutti trattenere il fiato sul fondale
e vince chi più comodo galleggia
 
sul suo materassino radente il pelo d’acqua.
Lo so e mi tengo cheto e muto, ché
quelli come me muoiono soli a largo
oppure presi all’amo e poi grigliati.
 
(pag. 17)
 
 
 
 
Mi dà fastidio se dici «poeta»
 
Mi dà fastidio se dici «poeta»
con l’ironia che batte
affettuosa e puntuta sul dente.
Mi appare desueta
formula di perdono
a ribadire ciò che non sono:
 
un uomo la cui parola
ti ha portato fortuna.
 
(pag. 19)
 


 

Ma Antonio Lillo è anche un Editore e come tale scrive dei poeti da quel punto di osservazione:

 


 
Giustificazione alle mie lamentazioni di Editore povero
 
Se sono povero e lo dico a voce alta
non è che mi lamenti disperato. Non piango
in vista del suicidio. Ma ne rido a modo mio
per stemperare il senso di ingiustizia.
L’italiano medio invoca il mio successo editoriale
e non ammette la sconfitta del mio conto
che non va di pari passo alla poesia.
E non capisce il senso della mia lamentazione.
Poiché il male di uno – in questo caso – è collettivo
in ogni mio: «Sono poverino!»
(povertà che vivo a testa alta
perché nel mio lavoro metto tutto
a volte prima degli affetti e faccio libri
non guerre non palazzi e se il popolo non legge sono cazzi
solamente suoi) in ogni mio: «Sono poverino!»
non c’è nascosto un: «Ah, me miserino!»
ma un più maturo: «Noi, popolo di stronzi!» riassuntivo.
Ché la miseria è comune e non fa sconti.
 
(pag. 25)
 
 
 
 

Hard Boiled
 
Mi contatta uno, vuole pubblicare il suo primo libro che è un libro giallo con tanta violenza e un po’ di sesso estremo che fa sempre bene per vendere. Gli dico che se ha visto il nostro sito, saprà che noi pubblichiamo poesia, dovrebbe provare altrove. Mi risponde che la poesia è roba per sfigati, non vende nulla, anzi la poesia ha un piede nella fossa. Gli ribatto che l’unica fossa qui è la sua ed è biologica. Mi dice che pensava io fossi più furbo, che avrei fiutato l’affare di pubblicarlo, ma alla fine è colpa sua che si è fidato del suo istinto. Ogni tanto anche l’istinto sbaglia, soprattutto dopo aver passato una notte fuori a bere. La prossima volta, insomma, prima di proporre una pubblicazione guarderà il sito dell’editore, ok? Un vero duro al cazzo.

 
(pag. 26)
 
 
 
 

Caffè con metatesto
 
Ma sì, mi dice il giovane romanziere di futuro successo, che ha letto tutto, tutto sa, nulla gli piace, si crede Dio, ed è pronto a spaccar culi col suo stile irriverente, con l’irresistibile potenza affabulatoria della sua prosa, delle sue storie vissute sul limite, con un tono, come se io editore «di serie B» non lo potessi capire, nemmeno nella terminologia calcistica con cui mi schernisce. Ma sì mi dice, l’autofiction, il metatesto, la postavanguardia, tu mi capirai. Ma guarda che io, gli dico, primancora che editore sono stato poeta, e leggevo e praticavo l’autofiction, il metatesto, in poesia quando tu pettinavi le bambole a Bolaño e Foster Wallace. E gli cito a memoria versi di Caproni che non sa, da esempio, e lui rimane zitto, là, come un nemico.

 
(pag. 30)
 


 

Testi che non solo raccontano, a livello quasi diaristico, la vita di un poeta che Ogni mio libro lo scrivo / col sangue. Ci intingo / il pennino e ne siglo / la dedica in nero (Al lettore), e la vita di un Editore di poesia, ma soprattutto comunicano un modo di stare oggi. Raccontano gli altri, le relazioni, le aspettative, come e cosa pensano gli altri e come e cosa pensa lui. Limonio è un libro che traccia la linea dei quarant’anni e ne tira le somme, osserva, prende atto di ciò che c’è e si barcamena per restare. Perché restare non è una scelta. Fare il poeta è una scelta, fare l’Editore è una scelta, ma non restare. E anche nel caso dell’Editore Antonio ne spiega magistralmente il perché:

 


 

Il riscatto sociale
 
Mi chiama un’amica. Mi chiede cosa faccio, come sto. Le dico la verità: «Mi sono rotto le palle. Mi sono stancato di tutto, di chi scrive, delle librerie, dei distributori, dei compromessi, della boria di chi fa recensioni, della boria dei poeti, della falsità e scorrettezza dei concorsi, dell’ignoranza diffusa del pubblico, di chi ti chiede sempre favori, di chi ti manda manoscritti illeggibili o insulsi, di chi ti chiede di metterci la faccia, del clima viscido, fasullo, egoista, vanesio, intrallazzino e vacuo che si respira nei salotti letterari, pieno di porci frustrati, vallette e bimbiminkia, di gente che ha potere e se ne gloria con e senza discrezione e di altri che mostrano il culo al potere scodinzolando con naturalezza, di gente che non avendo né poesia né potere non fa che parlar male di tutti con quel senso di superiorità dei poeti postumi. Odio la poesia e il potere. Vorrei chiudere la casa editrice e andare a lavorare per qualcuno che mi paghi per fare quello che già faccio senza un soldo e senza un grazie. Voglio scomparire e respirare. Tornare a leggere soltanto per me stesso. E che facessero gli altri quello che non riesco a fare io». Lei mi risponde così: «Lillo ti prego no, poi non posso più dire che ho un amico editore. Tu sei il mio riscatto sociale. Non ti permettere».

 
(pag. 31)
 


 

Un’opera che toglie esposizione e racconta cosa significa vivere adesso. Soprattutto in una chiusa composta da due soli testi lunghi che disegnando occasioni odierne si relazionano a un passato un po’ démodé:

 


 
L’abbandono
 
Da quando gli è morta la moglie
di Martino in campagna non si vede più traccia.
Una volta accudiva gli alberi come dei figli
dall’alba fino all’ora di pranzo e poi rientrava
traboccante di mele. Adesso ha scelto
di accudire il silenzio della casa
nel ricordo un po’ spaesato del suo amore
ma tornare alla vita gli costa troppo.
Ammettere che una vita può riprendere
sarebbe tradire la memoria della donna.
Lei che vive in lui che muore in lei
un giorno alla volta. Chi è vedovo dei due? Fuori
restano le mele che cadono e fermentano, marciscono
imbevendosi di piogge sulla terra indurita.
Risplendono nei colori autunnali con una tale gioia
che ti stringe il cuore. Ma nemmeno i poveri
si prendono la briga di raccoglierle.
Una mela è frutto del passato.
E soltanto mio padre quando passa
ne riempie una piccola cesta con discrezione
ché si addolora per tanto spreco.
 
(pag. 107)
 


 

Limonio di Antonio Lillo è un libro di Poesia (di quelle con la P maiuscola, appunto) perché tra le sue pagine riempie e descrive una parola che in italiano non esiste. Il contrario di esposizione, che non è nascondere ma rendere comunque visibile, pubblica, una cosa, senza esporla. Uscendo dalla grata di valori odierna e parlando una lingua poeticamente umana e consapevole, dotta (mi si perdoni la ripetizione) ma senza esposizione. Capace di trattare temi diversi quali il lavoro (nel capitolo Breve storia dei miei gatti – storia del mio nuovo lavoro) e la lingua (nei capitoli Il problema della lingua e La parola e la morte) sempre con un’autoironia da àncora se non di salvezza almeno di trattenimento a galla.

Con quel pizzico di irriverenza linguistica utile a far capire lo straniamento, la difficoltà, che c’è nel vivere odierno. Sia come poeti, sia come Editori, sia come quarantenni.

 

Alessandro Canzian

 
 
 
 


 
 
Cosa mai potrà portarci il tempo
se non il rinsecchirsi delle dita ed il silenzio
più buio nel lento avanzare dell’inverno?
Non certo l’esperienza od il conforto
di un ultimo improvviso amore offerto
a un cuore più maturo. Ecco. Noi qui
si vive soli per sentirsi meno soli
di fronte alla speranza che tradisce.
Perché soltanto attraverso la poesia
ritorna tra le dita il verde che non tace.
 
(pag. 9)
 
 
 
 
 
 
Quando incontri un poeta ammazzalo
 
Quando incontri un poeta ammazzalo.
Risparmiati le battutine o i discorsi accalorati
e pieni di riguardo e bei proponimenti
in cui difendi quello che non sai o non leggi.
 
L’unico poeta buono è il poeta morto.
E tu contribuisci alla sua storia armandoti di pietre
e mazze solide. La storia ti ringrazia.
La storia da solista di cui sei protagonista
 
e il poeta vivo un incidente di percorso.
Questo ti comando: risparmiati pietà
e vuota giustizia per chi la chiede o vuole
 
e riconduci il poeta al sangue al buio
a tutto ciò che la sua fame impone. Un attimo
della tua attenzione mio postumo lettore.
 
(pag. 21)
 
 
 
 
 
 
Paglialunga
 
«Cartastraccia» mi dice Paglialunga
leggendo senz’amore i miei poeti
con la sicumera di chi fa letteratura
a vent’anni e si offende se gli dico
che è un ragazzo nulla più che un cazzo
dritto come tanti. Richiama il suo
coetaneo Codignola – cosa posso offrirti
ragazzino se non la bocca storta
a furia di sorrisi e un cuore inacidito
dal dubbio? – Nulla che ti basti o
che soddisfi il tuo bisogno di affrancarti
dal mediocre a cui ti senti condannato
dal tuo essere nato
nulla più che un cazzo come tanti
buono per la monta e poi la morte
per esprimere a forza di botte e battutine
da stronzetto il disprezzo naturale
che preme per scoppiarti nei calzoni
alla tua età frustrata
dalle parole senza sesso
degli altri. Lo guardo Paglialunga e mi rivedo
io che sono stato mio nemico
come lui lo è di se stesso. E vorrei dirgli – né mi azzardo –
che è successo anche a me
di stare dritto come un cazzo
in mezzo agli altri. E non capire
che per quanto mi gettassi nella mischia
– fiero del mio cieco pregiudizio di uno
sterminato amore per la vita –
si è comunque destinati a invecchiare
nella spietata indifferenza degli altri.
Ed è questa la condanna di chi crede
soprattutto alla parola. Che tutto
può essere espresso racchiuso
persino la parola «invecchiare».
Ma la parola da sola
non significa veramente nulla.
 
(pag. 78)
 
 
 
 
 
 
Discorso intorno a un verso di Giovanni Giudici
 
«L’essere è più del dire». Forse.
E il malessere non dà rimborsi
se non dentro la sottile lamentazione
che mai io sono stato chi volevo
non sapendo di preciso né chi
volessi essere né come. Né se questo
mio balbettare faccia gioco a chi
mi ha dato la parola inutile che sono.
Se parola sono. E quale.
 
(pag. 82)
 
 
 
 
 
 
Mostricino
A Elena Zuccaccia

 
Il mio amore è un mostricino
per metà cuore per metà meschino.
Quando si riconosce si dà del mostro
ma è un mostro carino dunque
con affetto lo chiamiamo mostricino.
 
Eccolo che si mangia le dita
e si finge nel mio sguardo sensibile
ma insensibile nella sua vanità
si aggrappa a un niente e fa dei piani
per spazzare via in un lampo tutto il male.
 
«Dov’è il male?» Se lo chiede se
non riesce più a vedermi.
Allora mi cerca finché non si ricorda
che mi odia. Allora si allontana
per non odiarmi troppo.
 
Perché senza di me cosa gli resta?
Un bellissimo nulla. Tutto il male.
La tentazione di non essere più nulla.
O forse di non essere mai stato.
 
(pag. 94)
 
 
 
 
 
 
Limonio
 
Alla fine ti chiamavo Limonio.
Non più il fiore tumido della mia
adolescenza distratta ma
scarnificata dalla chemio
qualcosa che si aggrappa
a quanto spazio rimane nel vaso.
Che lotta e si accontenta di un respiro
che nutra il suo scheletro d’erba.
Sarà forse una conquista dell’età
mettere senso al mondo dando
nuovo peso alle cose. Scambiare
la vanità del tuo corpo pieno
con la leggerezza ormai orientale
del tuo corpo vuoto. La chiamavo
conquista dello spirito e offendevo
con la solita mancanza di tatto
che mi avresti perdonato. Solo
i poeti mi dicevi non sanno
parlare alle donne. Io sapevo
ma rifiutavo di capire che morivi.
Negavo. Scherzavo. Negavo.
E così tergiversavo sul tuo male
per non dire che ti amavo. Che morendo
mi avresti spezzato il cuore.
Ora ho perso l’occasione di dirti
che il limonio l’ho sempre preferito
agli altri fiori. È la mia colpa
che ti confesso pur sapendo
che non si vive di rimpianti.
 
(pag. 108)