Lettere sulla critica – a Claudio Damiani

Caro Claudio,

ho appena letto con interesse il tuo messaggio del 1994 al Trevi (Lettere sulla critica: a Emanuele Trevi del 7 aprile 2024, QUI) autore delle Istruzioni per l’uso del lupo. Trovo abbastanza singolare, ma a suo modo significativo, che nello stesso anno sia uscito anche il mio libro Per un ritratto dello scrittore da mago che qualcuno avvicinò subito a quello di Trevi recensendoli insieme. Senza conoscerci allora, partendo da punti di vista in apparenza piuttosto diversi, io ed Emanuele suggerivamo anzitutto in quei due testi sui generis quanto arido, grigio, asfittico e imbalsamato ci sembrasse l’esercizio critico dominante non solo in ambito accademico ma anche tra gli esegeti più accreditati, con pochissime eccezioni. In questo momento non ho la possibilità di rileggere il testo di Trevi (sono in una specie d’isola priva di libri) ma, anche dopo tanti anni, il suo senso generale continua a risuonare in me come una musica di idee seducenti e liberatorie, come un contrappunto di emozioni ondeggianti fra Mozart, Miles Davis e i Rolling Stones. Se nel mio Ritratto dello scrittore da mago tentavo di rilanciare le ragioni di una critica non congelata negli schemi del razionalismo, dello scientismo e del disincanto accademico esplorando i regni dell’illusionismo, della magia bianca, delle Fate Morgane, dei giochi di specchi o dei sogni – tutti quei luoghi “di soglia” il cui sovrano, fin dai tempi più remoti, è Hermes – , Emanuele cercava, credo, di sottolineare come sia magica la letteratura quando sa evocare la vita nella sua sostanza selvatica e irriducibile alle categorie, nella sua radicale alterità, nel suo ingovernabile mistero; se io affermavo che il compito della critica non è mai quello di smascherare la magia (ogni vero scrittore ha i suoi trucchi) ma di “stare al gioco”, di porsi di fronte alla magia in uno spirito empatico sospendendo tutte le forme ideologiche (psicanalitiche, semiotiche o marxiste) d’incredulità e di sospetto, Trevi diceva che a quella nuda provocazione, a quella rischiosa fascinazione, a quell’ipnotica minaccia (gli occhi del lupo) che ci arriva da ogni grande pagina di scrittura i lettori (e quei lettori particolari che sono, o dovrebbero essere, i critici) non devono resistere: solo se si lasciano sedurre, afferrare e divorare i critici possono tentare di restituire almeno qualcosa di quel profumo un po’ aspro e selvatico che emana da Omero come da Rimbaud, da Tolstoj come da Kerouac, da Dante come da Flannery O’Connor.

Sia per Trevi che per me, Citati – il più magico e vivo, il più “ermetico” e vibrante critico italiano del Novecento – è stato un maestro cruciale, oltre che un grande amico. Senza la sua lezione – e naturalmente senza quella di Attilio Bertolucci – non sarei mai riuscito a preservare negli anni la fede nella magia della parola, nella sua forza terapeutica e rivelatrice, nel suo potere esorcistico e illuminante. Come ho raccontato nel mio libro su di lui (Il mago della critica), era l’apertura totale dello spirito e della mente il nocciolo essenziale del suo insegnamento. Per lui la letteratura era davvero “tutto”: passione del vero e gusto del gioco, ricerca dell’Uno e del molteplice, teatro illusionistico e sentiero iniziatico, viaggio omerico e tessitura cangiante, avventura ventosa ed esplorazione alchemica…

Pietro Citati, caro Claudio, mi manca. Mi mancano le nostre telefonate e i nostri scambi di lettere. Mi mancano perfino i nostri momenti di disaccordo. Forse è giunto il momento di rileggere Citati come se non lo avessimo mai letto, come se per più di mezzo secolo non avesse continuato a mostrarci il mistero, la vita, la vastità, l’anima della letteratura in un modo unico, con una sapienza, una leggerezza e una profondità da antico maestro cinese?

In uno dei miei ultimi libri, I volti di Hermes (che, collegandosi a Per un ritratto dello scrittore da mago e al Mago della critica, conclude una sorta di trittico), dialogo ancora con le idee, i punti di vista e le suggestioni di Pietro (ero tra i pochissimi a cui aveva rivolto l’invito di comunicare col “tu”) tornando a leggere la letteratura come luogo “ermetico” di tutte le soglie e gli incroci di senso, come terreno d’incontro fra il “qui” e l’Altrove, la realtà e i sogni, il visibile e l’invisibile, il sacro e il profano, come ponte sospeso e fluttuante fra gli aspetti opposti e fraterni del tutto, cioè come specchio della Metamorfosi cosmica.

Più che mai oggi, caro Claudio – e per oggi intendo quella fase dello spirito che è stata modellata dalla folle esperienza della pandemia –, l’Occidente è sovrastato dal rischio continuo di pensare le cose e i valori, l’umanità e il mondo in termini manichei, drastici, riduttivi, duali: noi e gli altri, il Bene e il Male, il Giusto e l’Ingiusto, la Verità e la Menzogna. Lo spirito di Hermes che sia Citati sia altri maestri (Bertolucci e la Spaziani ma anche un grande Roshi zen giapponese e il suo allievo prediletto, un geniale pianista e alcuni meravigliosi prestigiatori) mi hanno spinto a esplorare, si muove in una prospettiva profondamente diversa: questo dio “obliquo”, bizzarro, ilare, malizioso e sornione, tanto imprevedibile quanto libero dalle categorie e dagli schemi, ci insegna la flessibilità, la tolleranza, il fascino dell’incontro, la leggerezza, la curiosità, il calore delle connessioni e delle invenzioni, la gioia delle scoperte e della sorpresa, la luce iridescente della grazia, l’entusiasmo dei voli fra la terra e il cielo. Al fuoco dello stile erratico e sapiente di Hermes la critica potrebbe rinascere dalle paludi (purtroppo sempre in agguato) dell’accademia e dalle ceneri del giornalismo svenduto agli interessi editoriali come una voce fresca e palpitante, come un flusso di parole e idee sempre in movimento per ricordarci la ricchezza, la complessità, i colori e il mistero della condizione umana, e della grande letteratura che di essa si nutre e in essa si cerca e riflette. Mai come oggi la critica è di fronte a un bivio: o continuare a stremarsi in esercizi vacui e privi d’anima, ripetuti in nome di teorie sempre meno credibili (o anche, semplicemente, per ragioni di potere accademico), o diventare un viatico flessibile per la vita, un orizzonte capace di ridare fiato alla nostra sete di bellezza liberandoci dalle logiche dell’intransigenza, dalle strettoie della violenza, dello scontro ideologico, della guerra perpetua.

Mi sono spinto, Claudio, troppo in là? Spero proprio di no. Questa lettera è nata da un bisogno sincero di respirare. Anche un allievo di Hermes, lo sai, può essere sincero. Ti ringrazio per l’occasione di dialogo e ti abbraccio.

Tuo Paolo
26 aprile 2024