Lettere sulla critica – a Emanuele Trevi

Si dà inizio qui a una rubrica che si intitola Lettere sulla critica. È un titolo che si ispira a un libro di Emanuele Trevi del 1994, che si intitolava Istruzioni per l’uso del lupo, lettera sulla criticaE si comincia con una letterina (allora non esistevano ancora le email) che m’è ricapitata recentemente tra le mani, che scrissi a Emanuele appena uscì quel libro e non ricordo nemmeno se lui mi rispose, o ne parlammo forse al telefono (ancora non c’erano i cellulari) o in qualche nostro incontro a voce. Certo è piuttosto estrema, e acerba, ma dice cose in cui ancora sostanzialmente credo, forse ora argomenterei meglio le ragioni delle affermazioni che facevo. Ma mi piace così. A questa seguiranno altre lettere di altri scrittori, critici ecc, sempre su questo tema: la critica. La critica che media tra l’arte e il pubblico, ma anche apre scenari e orizzonti, che opera non commistioni, “contaminazioni” (parola orrenda che oggi si usa molto) ma confronti, collegamenti tra arte, scienza, pensiero, culture, costumi ecc. La critica che è stata grande nello scorso secolo, e oggi soffre. Ma se la critica soffre, anche l’arte (e quindi la vita) soffre. Proviamo allora a scandagliare il suo senso, o sensi, pensare i suoi spazi e mezzi, vecchi e nuovi, come e perché potrebbe, o non potrebbe, soffrire meno, o addirittura riprendersi.

 
 
A Emanuele Trevi, a proposito della sua lettera sulla critica1

Roma, 13 Luglio 1994

Caro Emanuele, la tua lettera a Lodoli è bella e piena di cose. Ma ti parlerò prima di tutto di un punto che mi ha stupito. A un certo punto esecri molto giustamente certa critica odierna fatta solo di vuoto, e poi te ne esci, non ricordo perché, con De Sanctis, e stranamente lo lodi. Dico “stranamente”, perchè la colpa del vuoto di tanta critica attuale, è proprio lui, De Sanctis.

Tu mi chiederai: perché? Io ti risponderò un po’ lentamente, ma, spero, con il massimo di chiarezza.

Un po’ più avanti nel testo tu ti stupisci che opere come Diario di Anna Frank o Se questo è un uomo non abbiano impedito i nuovi razzismi e le guerre, come quella adesso in Yugoslavia. Ora io ho maturato nel tempo una concezione tale del rapporto tra la letteratura e gli uomini, che sarà pure sbagliata forse, ma sta di fatto che ogni volta che la sperimento mi coincide sempre con la realtà, sia quella attuale che quella del passato.

Io non sono affatto stupito che il Diario della Frank non abbia impedito ecc., né sono costernato perché l’Europa si sia allontanata dalla letteratura. Quello che io penso, molto semplicemente, è questo: la letteratura non educa mai un popolo. Cioè nel senso che non è lei a andare al popolo, ma è il popolo che va a lei. Come il popolo va a lei, ecco che non è più popolo, ma è quel “se stesso” di cui la letteratura è, secondo me, per definizione, scienza. Cioè sono, potremmo dire, degli individui, ma degli individui che sono molto più oggettivi del popolo, che è, invece, soggettivo. Ciò significa Petrarca quando dice che la poesia è “scienza di se stesso”, ciò significa ugualmente Dante quando dice : “feci parte per me stesso”, cioè: mi tolsi dalla politica, che, anche quando sembra più universale e collettiva, è sempre di una ‘parte’, di una ‘classe’, cioè è soggettiva; e mi innalzai tutto nella poesia, nell’oggettività, nella scienza.

Ora tu dirai: va bene, ma che c’entra De Sanctis? De Sanctis c’entra, perché fu lui che disse che la letteratura doveva andare al popolo. E, non contento di questo, disse anche un’altra cosa, che è così turpe e incresciosa, che se la critica non se ne accorge non si risolleverà mai e resterà sempre nel vuoto. Disse che il Rinascimento, il nostro tesoro, fu lontano dal popolo. E che la colpa di questa lontananza fu in lui, non nel popolo! Ora quest’assurdità non è stata mai smentita dalla critica, fino a tutt’oggi.

Ricordo che una ventina di anni fa, quando si parlava solo di politica, se nel discorso capitava qualche volta l’arte o la poesia, queste venivano criticate quasi sempre, vuoi con l’argomento che fossero “borghesi”, vuoi con qualch’altra coglioneria del genere. E molto spesso si faceva un esempio, che m’è rimasto sempre impresso, e che adesso forse ci può tornare utile. L’esempio era: “il nazista che suona Bach”, oppure “Hitler che amava la musica”, o “che voleva fare il pittore” ecc.

Questo esempio veniva usato per negare l’arte, e però tu nota come, pure nella cretineria, questo argomento contenesse una verità. Quale? Quella appunto che l’arte non va, lei da sola, al popolo. Cioè il nazista può suonare Bach, può praticare e amare anche l’arte, ma non basta l’arte conoscerla o anche amarla, se non ci solleviamo noi veramente a lei.

L’arte non è, come pensavano i moderni, al di là del bene e del male. L’arte è puro bene. E proprio in quanto bene, non si può insegnare. Resta un esempio intoccabile, come la mela di Saffo, alta sull’albero sola, che i coglitori non raccolsero.

Da ciò deriva la difficoltà dell’insegnamento, a scuola, della letteratura, tema che tu affronti nella tua lettera, e che io vivo tutti i giorni in classe coi ragazzi.

Un altro punto vorrei toccare, e poi mi fermo. Tu polemizzi ripetutamente contro la virtù consolatoria dell’arte, e vengo ora a sapere (me lo hai detto ieri al telefono) che il bersaglio della tua polemica sono io, che avevo detto, in una delle serate all’Argot2, che la poesia è, appunto, consolazione. Siccome però quella era una battuta senza spiegazione, e siccome soprattutto le parole volano, è necessario che ti spieghi che cosa intenda io per “consolazione”.

Tu polemizzi, giustamente, contro la “piccola consolazione”, contro la consolazione, per intenderci, “borghese” (che potremmo chiamare anche “debole”, o “moderna”, o “non-etica”). Io invece mi riferisco alla “grande consolazione”, e mi rifaccio, per intenderci, agli Stoici, a Seneca, e alla letteratura cristiana. Ricordo che mi stupiva tanto come nei Fioretti, questo capolavoro della filosofia universale, una volta conclusosi il “fatto”, l’exemplum, il capitolo chiudesse con una specie di formula, del tipo: “e tutti furono molto racconsolati e fortificati”. Mi colpiva anzitutto perchè “consolazione” e “fortificazione” erano i tabù della cultura del mio tempo, dovendo la letteratura piuttosto sconsolare, indebolire e destrutturare il lettore (essere definito “consolatorio” era la massima ingiuria che un poeta potesse ricevere). Ma soprattutto mi colpiva perchè il termine “consolazione” era pronunciato, lì nei Fioretti accanto a “fortificazione”, come dire quasi che la vera consolazione implica già, in sé, la forza. Come dire: mi fortifico, a partire da una forza già precedente. A egregie imprese il forte animo accendono | l’urne dei forti. Sì, io credo che la consolazione, virtù suprema della poesia e dell’arte, sia la possibilità, per il lettore, di rivivere e magari vedere vinte quelle battaglie che lui ha già combattuto, o sta combattendo o sta per combattere, e magari ha vinto, di rivedere in sostanza una strada, che lui magari ha già fatto anche se non se ne era bene accorto, o che magari sta percorrendo proprio ora, una strada compiuta dall’inizio alla fine, tutta intera sotto i suoi occhi, perfetta come un cerchio.

Tuo Claudio

 
 

P.S. Tornando all’argomento iniziale, penso questo: la sapienza esiste, sta a noi capire o non capire. L’importante non è tanto credere o non credere che tutti possano o debbano capire, quanto vivere la sapienza noi stessi, fare cioè, come fece Dante, “parte per noi stessi”. L’importante non è, la sapienza, insegnarla, ma trasformarla, attraverso noi stessi, e la nostra gentilezza, in esempio. Come nei Fioretti sublimi, la sapienza è esempio. E anche la letteratura è esempio. Caro Emanuele, la nostra vita è breve e a tutti ci aspetta la morte, perché la nostra vita dovrebbe essere vile, perché non dovrebbe risplendere, quanto più possibile, di gentilezza?

P.P.S. Caro Emanuele, ti mando quest’ “esempio” del Vangelo, che sempre m’ha tanto impressionato, e straziato:

C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell’inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi.

(Luca, XVI, 19-31, trad. Bibbia C.E.I.)

 
 
 
 

1Emanuele Trevi, Istruzioni per l’uso del lupo, lettera sulla critica, Castelvecchi, 1994 (poi Elliot, 2012).

2Teatro romano dove nel 93-94 si sono tenuti, a cura dello stesso Trevi, incontri letterari periodici.