Il mito di Fedra e Ippolito tra passato e presente

Il mito di Fedra e Ippolito, emblema di un amore impossibile e distruttivo che stravolge dalle fondamenta l’io e i rapporti familiari, è significativamente ricorrente nel teatro di ieri e di oggi. L’opera più nota dell’antichità dedicata all’infelice passione della moglie di Teseo per il figliastro è la tragedia Ippolito incoronato di Euripide, mentre nella contemporaneità una versione di rilievo è costituita da L’amore di Fedra della drammaturga inglese Sarah Kane.

L’Ippolito incoronato è la seconda tragedia in cui Euripide tratta del mito di Fedra. La prima, Ippolito velato, di cui resta un esiguo numero di frammenti, era stata giudicata troppo audace e scandalosa; qui la donna rivelava direttamente e senza mezzi termini i propri sentimenti a Ippolito, che, per evitare la contaminazione, si copriva il viso con il mantello. Ippolito incoronato vale da rettifica rispetto a tale versione e consente all’autore di ottenere la vittoria agli agoni drammatici nel 428 a.c.

Questa la trama. La dea Afrodite decide di punire il giovane Ippolito, che la trascura per dedicarsi solo alla caccia e al culto di Artemide, suscitando nella matrigna Fedra, moglie del re Teseo, una forte passione verso di lui. Così la regina rifiuta di mangiare e deperisce a vista d’occhio. Preoccupata per lei, la vecchia nutrice riesce a strapparle il segreto; dopo lo sbigottimento iniziale, l’anziana donna cerca di convincere Fedra che è inutile cercare di contrastare l’amore e, con l’intenzione di aiutarla, rivela a Ippolito i sentimenti della matrigna. Il giovane si mostra scandalizzato e disgustato e si lascia andare a una diatriba misogina in cui le donne vengono definite la peggiore calamità; quindi, dopo aver giurato di tacere, decide di abbandonare il palazzo prima del ritorno di suo padre Teseo. Senza più barlume di speranza, Fedra si toglie la vita, lasciando al marito uno scritto in cui accusa il figliastro di averle usato violenza. Poco dopo Teseo torna alla reggia e scopre il cadavere della regina e la sua lettera; disperato, invoca il dio Poseidone suo padre e scaglia una maledizione contro Ippolito, noncurante dei tentativi del figlio di discolparsi. Così, mentre il giovane è in viaggio per allontanarsi dalla patria, viene travolto orrendamente dai suoi cavalli, atterriti da un mostruoso toro inviato dal dio del mare. È ricondotto presso la reggia agonizzante, e a questo punto la dea Artemide interviene e rivela la verità a Teseo. Ippolito spira tra le braccia del padre, perdonandolo, consapevole che la sua morte è stata decretata dagli dei e dal destino.

Da questa narrazione emerge la distruttività dell’amore e delle passioni umane, a cui l’uomo può solo soccombere a causa della limitatezza della propria conoscenza. Fedra è consumata dall’amore febbrile e illecito per il figliastro, ma non è disposta ad abbandonarsi ad esso; anteponendo la propria virtù, dichiara di non voler disonorare per nessun motivo suo marito e i suoi figli. La tragica decisione del suicidio prende le mosse dal desiderio di liberarsi dal dolore, di serbare intatto l’onore e di punire il figliastro per la sua superbia: «Condividendo con me la sofferenza, imparerà ad essere saggio». Anche Ippolito, a suo modo, è animato da pulsioni e sentimenti estremi: la misoginia, la devozione assoluta ed esclusiva per la caccia e per la dea Artemide, lo stile di vita radicale, che viene evidenziato dal padre nella sua ira: «E ora, vantati pure e imbroglia gli altri con il tuo nutrirti di verdure e cereali, prenditi Orfeo come maestro e baccheggia in veste mistica, onorando molti libri pieni di fumo […]». Quanto a Teseo, egli è preda della propria rabbia cieca; uomo di azione e di potere, si mostra incapace di confronto, dialogo e mediazione. Tutti i protagonisti si configurano quindi come vittime, in uno scenario pervaso da divinità onnipresenti e punitive. Va aggiunto che la scelta del titolo della tragedia pare riferibile alla volontà dell’autore di concentrare l’attenzione su Ippolito, che nel finale, negli ultimi scampoli della propria esistenza, emerge nella sua umanità, attraversato da rimpianti, speranze e paure, in bilico tra la vana protesta contro l’ingiustizia e l’amara accettazione del proprio destino.

Alcuni secoli più tardi è Seneca a mettere in scena il dramma di Fedra nella tragedia omonima. Lo scrittore latino utilizza presumibilmente come fonte l’Ippolito velato: infatti nella versione da lui proposta Fedra stessa rivela il suo amore al figliastro. Diversamente dall’opera euripidea, inoltre, qui la regina non si uccide prima del ritorno di Teseo, ma solo dopo avergli rivelato la verità, quando il cadavere di Ippolito viene portato nella reggia. Il fatto che il giovane torni a palazzo già morto comporta la negazione della possibilità di un ultimo colloquio con il padre, come avviene in Euripide. In una atmosfera di orrida cupezza tipicamente senechiana – culminante nella scena in cui un messaggero descrive la macabra ricerca delle parti del corpo di Ippolito ad opera dei servi che tentano di ricomporlo – colpisce l’assenza delle divinità, nella tragica, ossessiva solitudine dei destini umani.

L’amore di Fedra di Sarah Kane viene rappresentato per la prima volta nel 1996 a Londra; approderà in Italia, a Roma (per la regia di Marinella Anaclerio) nel 2000, circa un anno dopo il suicidio della giovane drammaturga. Protagonisti assoluti dell’opera sono gli istinti e le pulsioni dei personaggi, estremizzati in senso patologico, secondo i tratti caratteristici del teatro della Kane. L’Ippolito del mito, che eccede in virtù, diventa qui un erotomane annoiato e indifferente, che trascorre il suo tempo mangiando hamburger e guardando film violenti, masturbandosi e avendo rapporti sessuali con ospiti occasionali. Più che misogino, Ippolito è un disprezzatore dell’umanità; «lui è veleno», sentenzia Strofe, la figlia di Fedra, in dialogo con la madre. La rivelazione dei sentimenti della regina avviene per confessione diretta – come nell’Ippolito velato e in Seneca – ed è l’ammissione di un amore malato verso un individuo disturbato: «Sei difficile. Volubile, cinico, amaro, grasso, decadente, sfatto. Stai a letto tutto il giorno e guardi la Tv tutta la notte, barcolli qua e là per la casa con gli occhi assonnati e senza un pensiero per nessuno. Soffri. Ti adoro». Segue una scena di sesso orale tra i due, in un contesto di brutale meccanicità, mentre il giovane continua a guardare a tv e a mangiare dolci. Quindi, dopo aver comunicato freddamente a Fedra che tra loro non accadrà più nulla, Ippolito le svela la relazione tra lui e Strofe e tra quest’ultima e Teseo. Fedra si impicca dopo aver lasciato un biglietto in cui accusa il figliastro di stupro, e Ippolito, afferrato dai sensi di colpa, si costituisce. In carcere riceve la visita di un sacerdote, che tenta inutilmente di convincerlo a confessarsi; in un grottesco rovesciamento di ruoli, il religioso finisce per praticare sesso orale a Ippolito, che, poggiandogli la mano sulla testa, lo esorta: «Vai a confessarti, prima di morire bruciato». Il dramma si chiude davanti alla pira funeraria di Fedra, dove la folla inferocita lincia Ippolito alla presenza di Teseo e di Strofe, travestita; Strofe viene violentata e uccisa dal sovrano, che non la riconosce, tra il plauso generale, mentre la folla evira Ippolito. Infine Teseo riconosce con orrore il cadavere di Strofe e, ammettendo la propria ignoranza, si taglia la gola; non vi è alcuna presa di coscienza dell’innocenza del figlio. La battuta finale di Ippolito, un attimo prima di morire e prima che un avvoltoio scenda a cibarsi del suo corpo, rivela la sua lucida, cinica consapevolezza: «Avvoltoi. Ce ne volevano di più di momenti così».

Il modello della Kane è soprattutto Seneca, sempre popolare in ambito britannico, qui particolarmente confacente al gusto del macabro e dell’orrido. In L’amore di Fedra Ippolito si conferma, a ben guardare, personaggio marginale – non per la spiccata devozione religiosa, ma per la personalità depressiva e narcisista -, alternativo rispetto al sistema – è un disprezzatore di Dio e della monarchia stessa -, altero e incapace di amare, eppure dotato di una singolare purezza, di una superiorità morale che emerge appieno solo negli ultimi istanti di vita. Il triangolo Fedra-Ippolito-Teseo si ridisegna nel quadrato perverso Fedra-Ippolito-Strofe-Teseo, sotto il segno dell’eros e della morte, nell’amplificazione radicale di ogni istinto di violenza. La famiglia – primo nucleo e paradigma di ogni altra organizzazione umana – è il regno di sentimenti malsani e di relazioni distorte e nefaste. Così il mito dà corpo a quelle emozioni e pulsioni da sempre connesse alla passione amorosa – il dolore del rifiuto e del tradimento fino all’annientamento di sé, la sete di vendetta – che, estremizzate in senso patologico, paiono alludere alla subdola presenza della malattia negli assetti costituiti, nel mondo, in noi tutti, specialmente in quanti rifiutano di riconoscerla.