Le parole viventi – Mario Fresa

Mario Fresa raccoglie nell’ebook gratuito Le parole viventi – Modelli di ricerca nella poesia italiana contemporanea (LaRecherche 2016, scaricabile qui) una serie di riflessioni critiche e prefazioni (tra cui la mia a Il colore dell’acqua, Samuele Editore 2016) su alcuni poeti che ha avuto occasione di incontrare: Sebastiano Aglieco, Marco Amendolara, Giancarlo Baroni, Mariella Bettarini, Alessandro Canzian, Luigi Carotenuto, Giacomo Cerrai, Domenico Cipriano, Enrico D’Angelo, Stelvio Di Spigno, Marco Furia, Mauro Germani, Franz Francesco Krauspenhaar, Sonia Lambertini, Eugenio Lucrezi, Giulio Maffii, Roberto Maggiani, Carlangelo Mauro, Daniela Monreale, Sandro Montalto, Francesco Osti, Rita Pacilio, Marisa Papa Ruggiero, Raffaele Piazza, Rosa Pierno, Enzo Rega, Jacopo Ricciardi, Tiziano Rossi, Tiziano Salari, Daniele Santoro, Antonio Spagnuolo, Ranieri Teti, Giuseppe Vetromile. Non si tratta di una mappatura ma di una serie di incontri che producono riflessioni e che di conseguenza offrono uno spaccato della scrittura poetica italiana degli ultimissimi anni. Nulla di definitivo (in fondo è da anni ormai che sappiamo essere impossibili mappature, censimenti e antologie), ma sicuramente offre spunti interessanti nella forma di un saggio sulla poesia scritto nel tempo e nei libri.

 

Alessandro Canzian

 

Dire qualcosa, dunque, coincide con una mancanza irreparabile: la scrittura non ferma né definisce lo stupore indescrivibile di questo vuoto incombente, ma ne amplifica e ne sottolinea i buchi, le ferite, gli interni dissestamenti; piombando, alla fine, diremmo antidialetticamente, in un vortice di semi-gesti, semisentenze, semi-allusioni che pure ambirebbe alla possibilità di aderire a un’ipotesi di «nominabilità» del proprio esserci. […] La poesia che narra non può descrivere altro: la labile apparizione-sparizione di un istante che sconcerta e ritrasforma senza preavviso la desiderata orizzontalità degli eventi. La poesia tenta di ricucire le sospese inettitudini dell’esserci, e ogni gesto non è mai stato, ogni nome è innominato, ogni preghiera è afona, ogni verso è lanciato su piattaforme aeree, sempre segnate da un destino di costante fragilità: è il destino di una finale e incontrastabile polverizzazione (il «tritacarne ronzante») capace di azzerare e di destituire, in un istante solo, soggetto e oggetto, azione e identità, parola e desiderio.

La poesia è meditazione costante ed estrema sulla dissipazione del nostro esserci. Registra Cioran: «noi, un tempo amanti delle sommità, poi delusi da esse, finiamo con l’amare la nostra caduta, ci affrettiamo a compierla, strumenti di un’esecuzione strana, affascinati dall’illusione di toccare i confini delle tenebre, le frontiere del nostro destino notturno».

La parola poetica, così, allo stesso tempo, edifica e sommerge, condensa e fa svanire, mostra e cancella: diventa, insomma, una specie di teatro delle parvenze e delle sottrazioni, in cui l’intera realtà osservata, e prima di tutto la coscienza e il soggetto, si rivelano caduche sembianze, nulli vaniloqui, giochi effimeri e bugiardi. Il paradosso è che lo sguardo poetico, pur mostrandosi fugace, transitorio e mortale come l’io che lo produce, acquista una nobile dignità, una esemplare altezza etica nel riconoscere, appunto, con trasparente pacatezza e con sofferta commozione, che la parola è solo, finalmente, un brandello, uno squarcio, un detrito: cioè l’ombrosa rimanenza di un tutto inafferrabile e inconoscibile, che rifugge da ogni possibile dicibilità, lasciando al poeta soltanto l’agra meraviglia di registrare il dilatarsi di una fitta disgregazione, la povera eco di un’avara particella di senso. Ed ecco: la poesia coincide con il nudo aprirsi di quel destino notturno di espiazione di sé e di totale dissolvimento, giungendo a toccare un punto nel quale convergono il tutto e il nulla, il vuoto e l’immensità, la nascita e la morte. Scrivere è dunque assegnarsi a una vertigine azzerante, ad una progressiva sparizione, a un’ auto-destituzione che annunciano di continuo il profilarsi di un tramonto, lo schiudersi di una totale, irreparabile resa. Bisogna, allora, «denudare ciò che è lì da tutte le sue rappresentazioni esteriori, fino a quando non sia altro che una pura violenza, una interiorità, una pura caduta interiore in un abisso illimitato» (Georges Bataille).

La poesia è una lingua forte: ci ricorda che un granello di verità si mostra a noi soltanto nella viva, tremenda coincidenza di un urto, di una scossa, di un improvviso sommovimento che ci scuote e che ci turba. La verità è violenta: corre su di un filo tormentoso che ci riserva spine, accecamenti, dirupi.

Ma la parola, la parola, può davvero fermarsi mai? E in particolare: la parola forte della poesia può conoscere l’ostacolo di una sospensione, l’accecamento del sonno o dell’inerzia? Certo, no. Eppure: vi è un continuo paradosso nell’opera di un poeta. Egli scrive: e dunque fissa, nell’immobile spazio delle righe, qualcosa che tutto può essere, fuorché assoluto, durevole, risolutivo. La morte, dico, non appartiene alla poesia. Infatti: è necessario trasportare la danza ferma della scrittura verso l’apertura di un movimento puro che si identifichi, alla fine, con la vita stessa. Quale significato, in questa ipotesi? L’esistenza risplende e si cancella, risplende e si supera, fruttifica e tramonta: e ancora; e così via. Bisogna essere un fiume, anche quando si scrive. Cioè: non si può mai sperare di dire l’esistenza, di nominarla, di chiuderne il senso nel chiuso cerchio di una parola definitiva, che non sia pronta, di continuo, alla trasmutazione e al rovesciamento. Perciò un verso va scritto, e poi dimenticato, e dunque riconsegnato all’esperienza della vita stessa; e allora, si dovrà pure capire che l’elemento fondante – in assoluto, il primo – di ogni discorso poetico sta nella sua capacità di aderire con perfezione, e con devozione, allo specchio metamorfico degli eventi che entrano-escono, e che vivono-muoiono. La poesia coincide con l’emergere di un’esplosione che poi si azzera e che poi già ricomincia, mostrando un nuovo volto, e un altro; e un altro. Ed ecco, insomma: la poesia dice, appunto, l’altro, e ciò che è, e ciò che un istante dopo non è più; e testimonia, soprattutto, l’irriducibilità, o l’imprigionabilità del pensiero, e le sue incontenibili rifrazioni e mutazioni.

Nella parola forte della poesia, si ascolta una voce che sempre è ferita dalla incessante contemplazione di un oggetto irraggiungibile (o già svanito, innanzi tempo); una voce che, mimando il torneo mortale della rincorsa di quell’oggetto inaccessibile, s’inchioda alla visione e alla tortura di un’impossibile nominazione di ciò che, disperata, rincorre. Il poeta consegna il suo sguardo al tempo chiuso delle parole che, mostrandosi, imprigionano la scena delle immagini nel recinto invalicabile di ciò che è stato per sempre, e che non potrà mai più cambiare. La parola poetica è sempre vicina all’emergere di una rottura, o alla tensione di un altrove irraggiungibile. È una parola che s’immerge nell’inversione simmetrica di una voce che tutto grida, senza quasi farsi udire (la poesia è letta; se è ascoltata, essa è sempre diretta alla mancanza assoluta del silenzio). I versi dicono ciò che è stato (ma non ciò che si è perduto); e dicono ciò che tocca la vertigine di una lingua che s’arresta sulla soglia del visibile e del nominabile (ma non ciò che può essere formulato, o descritto, con il linguaggio schematico e riduttivo della quotidianità). I versi nominano, allora, ciò che si riconosce dell’ombra misurabile degli eventi, o dei suoi grumi segreti, delle sue maschere ricomposte nei confini di una scena in cui tutto è già avvenuto (e in cui tutto sembra indescrivibile, perché rovesciato nel segno oscuro di un’uscita definitiva dal tempo). Nello spazio trasparente delle immagini, la parola poetica irrompe come sintomo di sconcerto e di malattia, comparendo come voce nascosta di un’acuta separazione, o di una lontananza, o di una privazione, o di un’assenza. La parola tiene e lega le coordinate sensibili di questa rappresentazione dell’assenza e del già stato; e la poesia s’insinua nella scacchiera delle immagini presentandosi come disturbo, come rovesciamento e trasmutazione patologica delle tracce della Storia. Ma come dire, come comunicare il senso di questo destino grave che condanna il poeta alla continua registrazione di un’assenza? Come disegnare i contorni di un’ombra che avvertiamo solo quando essa è distante, tagliata fuori, già trapassata? La lingua deve dominare lo spazio del senso, fino a uscirne fuori, a cancellarlo, a dimenticarlo. La lingua deve farsi altra, rovesciarsi in un discorso impuro, in una trasversale deviazione.

Scrivere veramente significa, ricorda Wittgenstein, abbandonare trampoli e scale, e restare in piedi, e soli, con l’unico sostegno dei nostri piedi nudi. Ciò impone l’abbandono di un centro rassicurante e, in generale, il rifiuto di una utopistica risposta illuminatrice; e allora, solo allora, quando avremo rinunciato a questi appoggi pietosi, ai trampoli e alle scale (insomma, all’ipocrisia e alla viltà dei nostri quotidiani infingimenti), si smetterà di scrivere per capire, e si deciderà di scrivere per rammentare l’assurdità di voler capire qualcosa (e anche, certo, per mostrare la stessa assurdità di scrivere). La poesia ci dovrebbe trovare proprio così: svestiti e disingannati, coi piedi scoperti e con indosso soltanto le nostre infinite, bizzarre domande, e le nostre incomunicabili ossessioni; e col fardello della nostra vita così inenarrabile e così stupida, così grottesca e così meravigliosa. Un poeta riesce, oggi, a fare ciò? Negli ultimi anni, chi ha frequentato la poesia italiana contemporanea ha dovuto sopportare, nella maggioranza dei casi, la falsissima retorica umanistica o la lamentazione sentimentale; o, peggio, la propensione alla fola carezzevole e sognante. Difficile incontrare un poeta che abbia la penna dura come una lama e il pensiero determinato e crudele, perché onesto e disilluso.

Non è un paradosso: la parola poetica, negli istanti più decisivi delle sue interrogazioni, deve assumere la forma di un docile fantasma, ricorrendo, se possibile, a una severa asciuttezza, e a una specie di auto-dissolvimento; in molti casi deve, addirittura, sfiorare le regioni dell’indicibilità, perché l’acuta risonanza del vero è soltanto avvertibile nel gorgo del silenzio, e a partire dal silenzio (la verità è istantanea, accecante: e non pretende che il buio).

La poesia agisce, quindi, come il luogo dell’evocazione e della rimembranza, come il centro degli eventi già passati e irrimediabilmente consegnati, una volta per tutte, alla sofferta dilatazione di un infinito silenzio. Ed è certo un luogo che vibra di oscure risonanze, di assilli inconsumabili, di proiezioni che annunciano il persistere violento di una perdita irreparabile; ma l’alone, l’ombra, la propagazione di quella perdita ritornano affannosamente, con doviziosa costanza e con acuta ossessione: così la lingua poetica si fa pure, paradossalmente, strumento di salvezza e di assoluzione, perché nel nominare un evento fa sì che quello stesso evento non muoia mai del tutto; anzi permette che si ridesti a una vita rinnovata, e a una diversa sorte, più cangiante e indefinita. Affrontare e rivivere la ferita di un dolore, studiarne il volto e identificarsi con esso, risorgendo ogni volta con la virtù di un’amorosa dedizione: queste le principali, sensibili coordinate di un discorso che mai teme di confrontarsi con le trafitture del sacrificio e della disperazione, sempre e solo confidando nella risorsa di un invincibile amore: così tutto – il passato e il presente, la distanza e l’immanenza – spinge il poeta a vivere e a soffrire le scosse di una lotta interminabile, segnata da istanti di esaltazione e di sconfitta, nei quali s’intersecano e si succedono la malattia e il risanamento, il gelo e la passione, la sofferenza e l’affrancamento, la voluttà e il tormento.

Affidare, dunque, ai versi l’ipotesi di una presumibile dicibilità di ciò che è stato, e di ciò che potrebbe essere, trasforma la parola in un labirinto dell’eventuale e dell’inaudito; permettendo, infine, alla poesia di trattenere e di contemplare, nel tempo immoto della sua lettura, ciò che si vuole, paradossalmente, sottrarre al tempo.

La poesia ci ricorda che i sentimenti più alti e necessari sono, non di rado, legati a zone enigmatiche e nebulose, mistericamente immerse, dunque, in una dimensione di liquida ineffabilità: eppure, anche se essi sono, molte volte, inchiodati alla inesplorabile riservatezza dei loro inconoscibili segreti, sarebbe bello, anche per un attimo soltanto, rinunciare all’ansia di una loro eventuale decifrabilità e consegnarsi a quegli stessi sentimenti provvisti solo di una bella e sincera purezza; come avviene in questi delicati versi inediti, dove Roberto Maggiani indaga le misteriose meraviglie e le grazie quotidiane concesse dall’amore facendo uso di un linguaggio morbido e cauto, diresti quasi docilmente bisbigliante.

La meditazione della poesia ci ricorda che sono proprio lo smarrimento e la disintegrazione a mostrarci il volto puro, finale, degli eventi. Così la terra dei fatti si rivela tremolante, fragile, granulosa; ed è sempre vicina a spaccarsi, a sbriciolarsi, a risucchiare tutto in un istante. È una terra nella quale gli estremi si toccano, si perdono, si trasfigurano nell’aspro gioco delle differenze e della consumazione. Entrare in questo mondo, perciò, significa disorientarsi. Procedere è errare. Fuggire è ritornare. Conoscere è allontanarsi dalle certezze, è sprofondare in un «misterioso esodo», affrontando e interrogando – senza mai ottenere ascolto, né tantomeno risposte – l’inafferrabile, cupo riverbero degli accadimenti che ci colpisce «tra le torri evaporate dell’essere». La parola è il segno di una caduta, è la traccia di un acuto sperdimento. Dire corrisponde a limitare, a de-finire. La lingua e l’occhio, nel tentare di catturare lo spettacolo irrappresentabile della vita, non fanno che ripercorrere il sentiero straziato di un luogo privo di indicazioni e di risoluzioni, ripiombando ciclicamente nel vortice della bruta insignificanza, e nella vertigine dell’insensato scorrere e sfiorire del tempo, segnato dalle ferite di un attimo che il poeta definisce «da carnefice», e che è pronto a braccare, a distruggere, a de-costruire ogni azione, ogni progetto, ogni desiderio con una violenza inesorabile e invincibile.

Nella metafora magrittiana di La reproduction interdite, una figura umana è posta davanti a uno specchio, e misteriosamente dà le spalle a chi osserva il quadro. La sagoma scura, annullandosi nella sua acuta frontalità oppositiva, attraversa l’immagine trasparente di se stessa, moltiplicandosi in un’eco visiva che produce una irreale torsione dello sguardo: in questo modo, la visione della figura che s’illude di specchiarsi genera una perdita progressiva dell’identità del soggetto rappresentato (provocando sconcerto e disorientamento nello stesso spettatore). Il corpo è visto come una scena moltiplicata, come un segno iconico paradossale che ripete, con ossessione, l’unica azione che gli è consentita: registrare la propria mancanza. Quella figura nega, in ogni istante, il tempo del proprio esserci, mettendo in scena il dramma della labilità e della ininterrotta e inarrestabile frantumazione dell’essere. La scrittura poetica disegna un’esperienza non dissimile. Chi si affida a un verso per l’interrogazione del mondo, vuole fermare, fissandolo una volta per tutte, il volto stesso della realtà, ma non fa altro, in verità, che cercare di trattenere, con affanno, lo scorrere dell’acqua tra le sue dita, la sua incontrastabile inanità: e così, paradossalmente, egli non può che testimoniare il vuoto, non può che dire nulla: e la direzione del suo cammino affonda, senza fermarsi mai, nella constatazione della fine e dello sperdimento, dello sbriciolamento e della sottrazione. La parola poetica, perciò, documenta l’affacciarsi costante di una presenza ch’è prossima sempre a disfarsi e a venir meno: e la sua lingua ripete l’impossibilità di nominare o di descrivere un’azione, perché questa rimane inchiodata al suo essere (e al suo continuo ritornare ad essere) un grande nulla: e la poesia è costretta, in definitiva, a offrire una totale esposizione del nostro essere-per-scomparire. Così il mondo osservato dal poeta si rivela, semplicemente, con l’aspetto di una pellicola deperibile, di un vago simulacro, di un diagramma sottile che agli occhi impone l’insistenza dolorosa di una prossima, insanabile dissoluzione. La poesia inscena e racconta il tempo della mancanza e dell’assenza. Come il personaggio del dipinto magrittiano, ci illudiamo di essere qualcosa: specchiandoci, notiamo che il nostro volto non esiste, e che non possiamo in alcun modo assicurare di poter pronunciare la parola «io».

La scrittura poetica – la sua rappresentazione sospesa, allusiva, tagliata – sembra ripetere, con ossessiva persistenza, la cerimonia di un gioco ambiguo: essa mostra ed elude, lancia-nasconde: e tu vedi che il reale compare dispare, in un istante, nella luminescenza ombrosa di un solo verso. La rappresentazione spezzata della poesia ricorda, in ciò, il famoso gioco del rocchetto analizzato da Freud: un’attività ludica nella quale un bambino «usava tutti i suoi giocattoli per giocare a ‘gettarli via’». E in che cosa consisteva, questo strano giocare a gettare via? Il bambino del racconto lancia un oggetto legato con un filo, lo allontana facendolo sparire; il nuovo piacere è costituito dalla riapparizione di quell’oggetto (e dal lancio rinnovato). «Questo era dunque il gioco completo – sparizione riapparizione – del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come gioco a sé stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto». La voce di un poeta chiama le sembianze, le forgia e dà loro sostanza; eppure, le sue parole giocano, in fondo, sempre e soltanto con la morte: e proprio come quel bambino che sperimenta che cosa significhi essere e non essere più, esserci e svanire, apparire e dissolversi, il poeta avverte e inscena lo spettro della mancanza e, fissando per un attimo l’emergere della vita, il suo volto così bello e così facilmente consumabile, ne fotografa la vanità, la stupefazione del suo essere nulla. […] Il poeta è il martire-testimone del proprio auto-annullamento, e della sconfinata vanità di tutto l’esistere. Rileva Michel Butor che è appunto il sacrificio del martire, l’ostensione della propria morte, a «mostrare la testimonianza per eccellenza»; ed è appunto – paradossalmente – nel martirio che il grande sacrificato inizia a conoscere e a mirare, nella sua interezza, «il momento della verità […] in cui diventa davvero se stesso».

 

L’ebook è scaricabile qui.

 

Mario Fresa è nato nel 1973. Ha compiuto gli studi classici e musicali e si è laureato in Letteratura italiana. Come poeta esordisce nel 1999, presentato su «Specchio della Stampa» da Maurizio Cucchi. Altri suoi testi sono apparsi nell’antologia Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004), e sulle principali riviste culturali italiane, tra le quali «Caffè Michelangiolo», «Paragone-Letteratura», «Nuovi Argomenti» e «Smerilliana». È del 2002 la raccolta prefata da Maurizio Cucchi Liaison (Premio Giusti Opera Prima), cui fanno seguito Costellazione urbana (Mondadori, «Almanacco dello Specchio», 2008), il poemetto Alluminio, prefazione di Mario Santagostini, 2008, Uno stupore quieto (La collana, Stampa, 2012, menzione speciale al Premio Internazionale Letteratura Città di Como, Premio Leandro Polverini), Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con interventi grafici di Mattia Caruso, 2015). Ha curato l’edizione critica di un poema di Gabriele Rossetti, Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo (nella collana «I Classici» di Carabba, 2010) e l’edizione e la traduzione dell’Epistola De cura rei familiaris di Bernardo di Chiaravalle (Società Editrice Dante Alighieri, 2012). Firma la rubrica Sguardi sul periodico «Gradiva. International Journal of Italian Poetry», di cui è redattore.