L’amore fugace negli epigrammi greci: Asclepiade, Meleagro, Silenziario

All’interno dei vasti territori della poesia amorosa, l’idea della transitorietà della passione compare con particolare ricorrenza in ogni spazio e tempo, al punto da configurarsi come topos, ovvero come reiterata immagine ampiamente riutilizzabile, in nome dell’universalità del sentire, al di fuori di qualsiasi prospettiva stereotipante. In questo breve articolo proporrò tre epigrammi greci di altrettanti autori, risalenti a un arco temporale che va dall’età ellenistica al tardoantico; la fonte di riferimento è il Fiore dell’Antologia Palatina (Garzanti, Milano 1977).

Il più antico poeta della triade che prenderemo in considerazione è Asclepiade di Samo, vissuto nella prima metà del III sec. a. c.; maestro di Teocrito e avversario di Callimaco, di lui ci restano circa quaranta epigrammi.

Un giorno giocavo con la seducente Ermione.
Sulla sua cintura a fantasia di fiori, o dea di Pafo,
in lettere d’oro era scritto: amami tutta
e non soffrire se mai mi avrà un altro.

In questi quattro versi la relazione d’amore è presentata come un gioco, una schermaglia. L’autore si rivolge direttamente ad Afrodite, apostrofata come dea di Pafo (luogo della sua nascita), sua interlocutrice privilegiata. Il messaggio che la giovane Ermione reca all’amato è affidato ad una cintura incisa a lettere dorate; la richiesta consiste in un amore totale, ma non esclusivo e senza pretese di durata: del tutto assente nel testo ogni riferimento temporale.

Il mito ci racconta che la stessa Afrodite era dotata di un cinto magico in grado di renderla irresistibile; è possibile che Ermione sia una seguace della dea, visto che il suo modus amandi sembra del tutto simile a quello della dea di Pafo, la quale, notoriamente, era solita coltivare le proprie relazioni in maniera libera, finché persisteva il sentimento, senza tener conto di vincoli e giuramenti.

Il breve racconto in versi di Asclepiade non lascia trapelare emozioni né giudizi morali, ma pare accogliere con delicatezza l’amore nella sua immodificabile natura: pervasivo, totalizzante, prezioso, ma non eterno.

Il secondo autore che riporto è Meleagro di Gadara, prolifico scrittore vissuto nel I sec. a.c.; è nota la sua corona, comprendente una sessantina di poeti, in cui i versi di ciascun epigrammista sono paragonati a un fiore.

Tu, sacra notte, e tu lampada, voi soli
foste testimoni del nostro patto;
lui giurò che mi avrebbe amato, io che mai lo avrei lasciato;
voi due ne avete la prova.
E ora lui dice che quelle promesse sono scritte sull’acqua;
e tu, lampada, lo vedi in altri abbracci.

In questo epigramma si insiste sulla valenza del giuramento d’amore: l’io poetante e l’amato stringono il loro patto alla presenza di due testimoni: la notte e la lampada. Entrambi gli elementi sono spesso presenti negli epigrammi erotici, la notte in quanto tempo particolarmente propizio agli incontri, la lampada in quanto portatrice della luce necessaria alla veglia e alla visione dell’essere amato. Nell’ultimo distico l’apostrofe iniziale è reiterata con toni in disillusione ed impotenza: l’infido amante infrange il giuramento, disconoscendone il valore, e la lampada nulla può se non assistere muta ai nuovi amplessi del fedifrago. Una lirica suggestiva e ben costruita, in cui l’amarezza per un amore svanito sfocia in recriminazione per il mancato rispetto del patto tra gli amanti, secondo uno schema ben noto nella letteratura antica, da Teocrito a Virgilio.

Con un salto temporale di alcuni secoli, arriviamo a Paolo Silenziario (VI sec. d.c.), funzionario di corte, autore di circa ottanta epigrammi, quasi tutti amorosi.

È dolce, amici, il sorriso di Laide; dolce scende
il pianto dalle sue palpebre mosse appena.
Ieri pianse senza motivo, poggiando a lungo il capo
sulla mia spalla; così, piangente, l’abbracciai;
e come da una fonte di rugiada le lacrime
cadevano sulle bocche unite.
A me che chiedevo: «Perché queste lacrime?»
rispose: «Temo che tu mi abbandoni; siete degli spergiuri».

Questo testo di otto versi differisce dai precedenti per il focus sulle lacrime di Laide, donna dolce ed incline a dare sfogo al timore dell’abbandono, timore basato sullo stereotipo intorno alla natura volubile ed infedele del maschio. L’io poetante suggerisce si tratti di una paura infondata («pianse senza motivo») e nel contempo ci mostra come la passione sia alimentata dalla sofferenza. Il tono è colloquiale (l’apostrofe è agli «amici», identificabili forse con gli stessi lettori) e si ricorre al discorso diretto. Il lirismo (si veda la similitudine al v. 5) si coniuga con il realismo, rendendo la lettura intensa e coinvolgente.

Risuonando nella voce degli autori antichi, l’esperienza dell’amore fugace allude alla precarietà della vita stessa e rimanda alla possibilità di serbare una traccia della gioia e del dolore attraverso la memoria, oltre la finitezza dei singoli individui, nella forza delle parole.