La Sirena diventa schiuma di mare – Maria Papapietro

 
 
 
 
Io non so cosa esistesse prima di te.
La calma piatta del mare al mattino.
L’eterna dimenticanza
di Calipso sull’isola,
il tramonto spento
all’orizzonte.
 
 
 
 
 
 
Non puoi vivere
in quest’incuria degli oggetti,
il ticchettio dell’orologio
l’inutile circo
di gesti sempre uguali.
 
 
 
 
 
 
Tutto è pieno di vuoto
e tu raccogli margherite
stanche e rade,
beffarda nemesi
di quelle favole che
leggevo sul tuo divano,
rilegate in quel cartone
così puro e lucido.
Il cielo mi schiaccia
con la sua
limpidezza irreale
e la Sirena
diventa schiuma di mare.
 
 
 
 
 
 
Se siamo esseri mitologici
gemelli siamesi separati
ai primordi del mondo,
se quella cesura
è l’inizio della vita
il paradiso è ciò a cui
anelo
ma è anche morte.
 
(Maria Papapietro, L’oltre necessario, Delta 3 Edizioni, 2021)
 
 
 
 

Maria Papapietro, in pochi versi, riesce a intrecciare i sentimenti alla raffigurazione di un luogo atemporale, assoluto e terribile, che pone in opposizione amara con la serialità del quotidiano, con le basse frequenze di una realtà priva di prospettiva, disincantata: l’elemento naturale – sia esso un mare o un cielo quasi inumano, per la sua maestà – ricorre come segnale dell’oltre possibile e allo stesso tempo come limite della vita di ogni giorno; ed è in questo dissidio che la ricongiunzione a un’origine sacra e primordiale si confonde con un senso di annientamento dell’individuo, di ritorno doloroso ma accogliente a un “paradiso … (che) è anche morte”.

Questo desiderio dell’oltre originario scaturisce dalla presa di coscienza del sentimento, dalla possibilità avvolgente di un “tu” (“non so cosa esistesse prima di te”): prima di questo vi è “calma piatta” ed “eterna dimenticanza”, lo spegnersi della luce in uno stato di incoscienza, un esistere senza vivere; dopo tale risveglio, invece, vi è la piena consapevolezza che non si può “vivere / in quest’incuria degli oggetti”, ne “l’inutile circo / di gesti sempre uguali”.

Il mondo concreto e quotidiano appare “pieno di vuoto”, privo di una possibilità di prospettiva appagante di senso, dove le margherite raccolte non possono essere che “stanche e rade”, insufficienti, ben diverse da “quelle favole che / leggevo sul tuo divano”: il conflitto tra realtà circostante e potenzialità dell’oltre, vissuto con disinganno e amarezza, ma anche passione sentimentale, si incarna in questo dualismo tra quotidiano e “fiabesco”; il cielo materico “schiaccia / con la sua / limpidezza irreale” e “la Sirena”, in una concordanza amara tra la favola e la realtà, svanisce in “schiuma di mare”.

Anche questo continuo richiamo agli “esseri mitologici” (Calipso, la Sirena, l’immagine dell’essere umano platonico separato in due metà all’origine del mondo) è un continuo logorare la serialità impersonale di ogni giorno, puntellandola di caratteristiche del sacro, in un continuo tentativo di farla precipitare in un altrove di senso terribile ma vissuto con partecipazione commossa: se questa “cesura” tra pieno e vuoto di senso corrisponde dolorosamente con “l’inizio della vita”, “il paradiso” di completa significazione, cura al disincanto del gesto “sempre uguale”, alla “calma piatta” e al “tramonto spento”, finisce per essere “anche morte”.

In ultima istanza: l’irrequietezza che indaga il reale, il disincanto dell’occhio attento a comprenderne ogni dissidio e contraddizione, la commossa ricerca di un altrove di senso possibile – appartengono dolorosamente alla vita, esperienza del reale che è disincanto e al contempo desiderio di ricerca – mentre il paradiso della completezza, della fine di ogni separazione, di un immobile giungere ad estrema destinazione – finiscono per appartenere in qualche modo alla morte, o meglio, alla fine dell’individuo. Amore e morte, disincanto e paradiso, calma piatta e continua necessità di indagine dell’esistere: sul limite di questi contrasti, il motore e la prospettiva di significato della parola dell’autrice.

 

Mario Famularo