La poesia lasciala lì, a macerare – David La Mantia


 
 
Per una poesia sana e forte
rifiutare l’aggettivo e le trombe,
nutrirsi di buio, delle allodole in volo.
occorre fare le scale
senza ascensore, leggere
le scritte, le pareti, raccogliere
le carte, quelle sporche, quando sali,
dar loro nome, evitare
di gridare, sedersi, ricominciare
 
 
 
 
 
 
Non riempite di stanchi giocattoli
i cuori dei figli, sporcare
gli aggettivi con nomi e vita vera,
consegnate tanti biglietti
d’auguri, tanti, e non disegnate
gli abbracci, ma chiedete ai bambini,
con voce esile, di insegnarvi
la strada, a sera, e di prendervi
per mano, perdervi nel loro bosco,
chiedete, pregate pietre da poggiare
sulla tomba, pietre da piantare
nel cammino, pietre tenere
che saranno case e città
di luce, case e tavole, tovaglie,
terra fertile, fiori, dita, alberi
 
 
 
 
 
 
La poesia lasciala lì, a macerare
sotto il sole, tra le cassette
di frutta e le mani stravolte,
e ricorda invece di santificare
gli incontri, di annodare
tutti gli abbracci, la pace,
di appiccicarli con il sudore,
così che nessuno possa rubarteli,
così che loro non possano
precipitarsi all’uscita
 
 
Gesti lievi – l’amore, se te ne accorgi, David La Mantia (Leggio, 2022)
 
 
 
 

Una poesia “pulita”, carica di vibrante umanità, in cui l’Io è residuale rispetto alla comunità in cui è inserito: David La Mantia, docente di liceo a Grosseto, fervido, generoso e umile intellettuale instancabilmente impegnato su più fronti nella promozione della cultura e della poesia, arriva a questo recente lavoro dal titolo Gesti lievi – l’amore, se te ne accorgi, prefato da Marilina Giaquinta con intervista di Gabriela Fantato per Il Leggio e di cui proponiamo tre composizioni di versi, dimostrando una partecipazione costante nella ricerca di un senso del dire che non sia vuoto o melenso scoprirsi bensì una profonda, quotidiana ricerca della bellezza sostanziale in ogni attimo, in ogni luogo. La prima percezione che si coglie avvicinandosi alla sua scrittura è quella di un umile lavoratore del verso che rattiene nella mente le plurime sensazioni sedimentate ed esperite per rifocillarci di vita, di entusiasmo, di speranza: nessuna falsa retorica, nessun accenno di autobiografismo sterile, ma un’accecante presenza di madri, figli, vecchi, città, ricordi, baci e morti, sì, anche morti che alimentano un dialogo fecondo nella memoria dei vivi. Pure nel grigiore che questo tempo sembra riservarci sempre più spesso La Mantia riscopre l’umanesimo più intenso recuperando il senso più pieno dell’essere donne e uomini consapevoli del valore unico dell’esperienza terrena. Se la poesia del Novecento apriva il secolo con il superomismo dannunziano, tutto potenza e forza, estetismo e urla, assistiamo in questo fervido intellettuale a una parabola discendente che conduce su territori recisamente opposti in cui semplicità fa rima con essenzialità: il poeta si sporca le mani, letteralmente, non può né deve ergersi a maestro e men che meno a vate, semmai, da primus inter partes, condividere la medesima direzione degli altri uomini verso la gioia, anche con i più piccoli ché essi possono donare sapienza ingenua e candida. C’è tutta una verticalità insita nella sua produzione che obbliga a scendere dalle altezze effimere e malate dell’Io per catturare l’unicità di ogni elemento del Creato. In La Mantia troviamo un narrare che si eterna, che s’inciela solo se scrivere si manifesti quale azione atta a reggere il confronto costante con il magma vitale. Ecco perché tra i verbi che maggiormente ricorrono in queste come nell’intera composizione ritroviamo “sporcare”: le “carte, quelle sporche” hanno piena cittadinanza, e sono anch’esse strumento, mezzo per la versificazione. Nelle plurime metafore, nell’ampio uso di figure retoriche (notevoli le lezioni di metrica fornite in Circolare Poesia di cui l’autore è colonna portante insieme a Mattia Cattaneo), è possibile osservare i diversi registri e livelli della significazione: c’è una morale cosciente che promana da ogni composizione ed è il valore dell’ “essere che è più del dire”, per ricorrere a quello che Ferroni ha definito insieme a Zanzotto l’ultimo poeta, il ligure Giovanni Giudici. L’essere prevale sull’apparenza, sul possedere, sul narrare: in queste poesie è evidente, lapalissiano potremmo aggiungere, sussumere come il verso debba rispondere a una duplice richiesta, che sia cioè in grado di restituire la sostanza di un’esperienza umana e che non sia mera celebrazione o peggio ancora autocelebrazione dell’Io. Fare poesia, oggigiorno, non può prescindere dalla necessità di con-vivere con gli altri, di com-patire insieme al nostro prossimo, di con-dividere la sofferenza e la gioia con il mondo circostante: “Santificare gli incontri, annodare tutti gli abbracci”, novello undicesimo comandamento, non sarà così una pretesa impossibile, ma il fulcro di una vita che, come ci insegna La Mantia, si fa presenza feconda.

Federico Migliorati