La poesia dei giorni – Filippo Passeo


L’undicesima silloge di versi di Filippo Passeo riconferma uno sguardo lucido e a tratti lancinante verso il sé e l’umanità ferita, due poli di un unico pensiero che spesso finiscono per coincidere. L’inquietudine che permea il verso e che assorbe spesso le forze dell’autore prorompe cristallina in un dire talora fluido talaltra smozzicato e segmentato, come un sussulto. Il mondo che erutta lava di dolore, falsità e superficialità trova in lui un adeguato contraltare che ricorre al candore e alla sincerità per “riaggiustare” la mira, per non finire nel gorgo di un buio che rapisce l’anima. Si definisce “un uomo che non ha saputo essere felice” e per questo non gli resta che assistere a visioni, fantasmi di un’esistenza travagliata, ma mai doma di cercare il bene e il bello: in aiuto accorrono i sogni che penetrano in una mente feconda e dinamica ad onta della gravità di una malcerta, trascinata età. Domande, interrogativi, quesiti affollano le righe come riflessioni pregnanti (“perché bisogna uccidere per esistere?”): per recuperare il senso più profondo, allora, è d’uopo rigettarsi nel mondo di una natura che si affaccia ora gentile ora decisa nella poesia di Passeo con il carisma e il fascino del tutto. Le metafore rendono il corpus dei versi maggiormente efficace offrendo un caleidoscopio di immagini e di sensazioni dal ricco colorismo. Proustianamente l’autore concepisce la musica, la poesia quale viaggio verso e nell’altro, con occhi sempre nuovi purché profondi, in ciò asserendo quanto sia necessario e prezioso vivere di bellezza per uscire da uno sterile e asfittico hic et nunc che ci paralizza. Gli affetti più caro sono al contempo alimento e linfa del verso, sorgente di dichiarazioni d’amore eterno ”che attraversa i nostri territori”. L’anima “sola e incolta” resta tuttavia a popolare il giardino di sé, scaturigine di riflessioni profonde e mai scontate, nel vortice di un’epoca bastarda. Un uomo, il poeta, fragile e scostante, ma a cui non difetta quella parresìa che oggi sembriamo non riconoscere più.

Federico Migliorati

 
 
 
 
Tutti i giorni
 
Calo giù il cielo.
Vorrei arraffarvi tutte le stelle
e buttarle nel mio buio
agnostico e freddo.
Poi so di un buio più denso
che circonda e soffoca
gli occhi e il cuore di un bambino,
e vorrei che fosse lui
a far crollare il cielo
e prendersi il polline
almeno di una stella,
quella che gli tocca, ma anche la mia,
oro in campi sterili.
 
 
 
 
 
 
Così è se vi pare
 
Il cielo è sempre quello,
vi sfrecciano stormi colorati,
ma c’è sempre un falco che li insegue.
Il mare è sempre quello,
famiglie di delfini vi giocano
ma c’è sempre uno squalo che scompiglia.
C’è un sasso sulla prima pagina delle Scritture
e sull’ultima una bomba malandrina.
Perché bisogna uccidere per esistere?
 
 
 
 
 
 
Poeti
 
Carte e carte le tue
per essere seppellite
da cataste di libri e montagne di parole.
E per questo hai strizzato l’anima,
l’hai sbattuta sui faraglioni della terra
e appesa grondante a un filo del cielo
dove si asciuga senza i significati
del presente e della fine.
L’hai spremuta, affettata, torturata
per vederla solo in trasparenza
illuminata da un incendio di versi
nella quiete delle sere.