La manutenzione di sentimenti, Gabriella Musetti (Samuele Editore 2015, collana Scilla, prefazione di Rossella Tempesta), ovvero della necessità del dire.
Non è necessario “dire”, non è assolutamente necessario scrivere poesie, compiere un atto che può apparire “spudorato”, a meno che ciò che sorregge il dire non sia quell’intenzione di comunicare qualcosa in cui tutti possiamo riconoscerci, e non solo per ciò che sappiamo, ma soprattutto per quella parte di verità insospettata che giace, ancora non evocata, nel nostro essere più profondo, e che solo la poesia ci permette di fare nostra, contribuendo così ad accrescere la consapevolezza del nostro esistere.
La manutenzione dei sentimenti, di Gabriella Musetti (Samuele Editore 2015), rientra pienamente in questa “necessità del dire”, perché c’è un bene che alla fine, grazie alle pagine di questo libro, possiamo riconoscere in noi, scoprendo così di aver cooperato, insieme all’autrice, alla “manutenzione” di quella parte così delicata e fragile in noi, come può essere solamente quella dei sentimenti.
Il compito in cui si è cimentata la Musetti, mediante una scrittura calibrata, cesellata oserei dire, si condensa nel passare in rassegna le stagioni di una vita, insieme a quella del compagno con il quale si sono condivise strade, luoghi ed esperienze. In maniera particolare la poetessa si soffermerà sulla stagione della malattia e del dolore che, fra tutte, risulterà essere quella che più avrà agito in profondità, modificando la percezione stessa del proprio tempo e del proprio essere. Un’operazione necessaria per rinsaldare scelte e sancire la fedeltà ad un passato che continua, proprio in virtù di questo umanissimo e delicato esercizio manutentivo, a essere vivo, a dare senso agli eventi del presente, soprattutto quando, sottoposti al lavorio nullificante del dolore, si può, pur nella dimensione dell’ istante, godere del dono interiore della “bellezza”, il solo che può infrangere il “fragile assillo/di una vita immutabile” e che può aiutarci a “ripensare il tempo che avanza”.
Il viaggio della Musetti inizia con la sezione Manutenzione dei sentimenti, prosegue poi con la sezione dei Passaggi ibridati, sviluppandosi successivamente in Non Ordinate confluenze e Frammenti – Che non siamo.
Lo sviluppo non è casuale, e un disegno sovrintende all’organizzazione testuale, disegno che fa apparire il tutto come un’opera organica, intimamente coesa e frutto di un consapevole processo di interiore conoscenza.
Il percorso muove dai ricordi e dalle emozioni più vivide di una storia, personale e di coppia, diventando, man mano che si snoda, il percorso della formazione di uno “sguardo” che non smette di credere nell’ideale, pur attraverso la costante dialettica con l’esperienza sottrattiva e frammentaria del quotidiano e, soprattutto, col demone del tempo e dei suoi sgraffi. Ma senza che il confronto scada in atteggiamenti di sconfitta e di rinuncia, perché le briglie della narrazione poetica restano saldamente in mano ad una viaggiatrice che non abdica al suo esercizio di lucida timoniera della propria esistenza.
Nel leggere la prima sezione si ha la sensazione di essere ricondotti a quella stagione creativa quale fu, per chi l’ha vissuta, quella del sessantotto, stagione colma di ideali e sogni, delle infinite e liberanti possibilità esistenziali.
Più volte la Musetti ci dirà nel libro di essere un “animale da città” attratta da “musei, strade/costruzioni umane” , e dunque questa prima tappa altro non è che la rivisitazione di luoghi urbani ove due individui provano a vivere l’esperienza del conoscersi come di un naturale “annusarsi dei cani”; due individui diversi, che non vogliono sottrarsi all’avventura di inventarsi una vita “sorteggiando i fili di una vicenda sconosciuta”. Sono versi molto belli, lasciati in eredità ad un tempo, il nostro, in cui l’avventura del vivere è stata sostituita dal calcolo, dalla logica dell’algoritmo e dalla categoria del previsionale.
Ecco allora due giovani che, presi dal loro amore, vivono come “distratti”, lontani da tutto ciò che non è essenziale, al punto tale da sentirsi estranei tra le strade di una Salisburgo che guarda, quasi intenerita, quei ”due che si cercano nel buio dei portoni”: bella testimonianza, questa, nel ricordarci che solo dove l’amore è, c’è anche il mondo e c’e anche casa. Poi Parigi e Rue Rollin, l’abitare “all’ultimo piano” e l’immagine dei “piccioni” che “traballando/zampettavano sui tubi di ferro dei cornicioni”, meravigliosa immagine in cui risultano fuse, emblematicamente, sia la tensione umana all’auto-trascendenza, sia la scelta di sfidare, osando, l’ignoto. Come a ricordarci che il cammino della conoscenza non è altro che la somma, comunque parziale, di “altezze sempre da oltrepassare”, non meccanicamente, ma mediante la pratica di scelte radicali e irreversibili.
E questa tensione, di chiara matrice idealistica, trova la sua migliore espressione in un’immagine delicata e poetica di due innamorati che fanno “l’amore davanti al balcone/per essere più vicini al cielo”.
Il viaggio, attraverso le sue tappe, enuncia i momenti di crescita, i momenti della domanda e quelli dell’ interrogazione, inizia a farsi tirocinio di convivenza nel tentativo di far “combaciare due misure/date in direttrice proprie”. Un menage che, dopo l’ubriacatura degli inizi, dopo “l’abbondanza dei colori”, “l’impatto così forte della luce”, inizia a farsi scuola di condivisione anche dei “silenzi improvvisi” che colgono impreparati, di quel “silenzio /fenditura che agghiaccia prima della notte”. Sarà la Sardegna a far sorgere i primi interrogativi sul perché non si riesca più a vivere “l’istante”, il momento in cui dovrebbe essere racchiuso in senso dell’eternità.
Lo sguardo, fattosi più acuito e penetrante, ora diventa capace di cogliere il “movimento che non appare”, di rivelare ciò che l’occhio non è in grado di cogliere; sguardo, quella della poetessa, che ci introduce nella dimensione dell’ “inaspettato” o al “silenzio brumoso“ delle nostre esistenze.
Il viaggio della memoria si arresta a Trieste, “ultima stazione” di tanto camminare ed, insieme, di tanto amoroso errabondare. Qui il viaggio si esaurisce nel perimetro di un giardino in compagnia di un vecchio cane che lieto accompagna.
Con Passaggi ibridati la poetessa ci introduce in un diario che è una sorta di cronologia del ”dolore”; le pagine di questa cronaca sono degli appunti delicati, mai soverchiati dal cupo soffrire, una sorta di ulteriore esperienza del conoscere attraverso il dolore, di accrescimento di quello sguardo capace di affrontare con lucidità ogni momento, senza cedere alla provocazione del male e al suo verdetto finale.
Le parole della sezione sembrano venire fuori dalla grande lezione rilkiana depositata in quell’opera unica che sono I sonetti ad Orfeo. Solo il cantore che partecipa in sé sia dell’esperienza del vivere che di quella del continuo morire, matura la coscienza e la dignità del canto. Le due dimensioni, parallele e ibridate allo stesso tempo, aprono alla lamentazione di un amore maturo che “sa tornare inaspettato/e rinnovarsi clandestino per noi“, un amore che anche attraverso il calvario del dolore diventa occasione di crescita e di “benedizione/ da conservare verointero”.
Ma a caro prezzo, si diceva: la malattia e il dolore sono esperienze che sottraggono al senso della realtà, almeno quella che intendiamo come tale, e ci richiudono in una sorta “di limbo” in cui tutto è in “precario equilibrio”. Il punto di fuga lì davanti è solo una prospettiva minimale, e vivere si riduce a “scoperchiare lo spazio minuto/breve come un respiro”. Le incombenze del giorno dispongono ad azioni (“centellinare i momenti”) semplici ed eroiche allo stesso tempo (“portare il pane sulla tavola, togliere il bicchiere”), mentre le certezze acquisite, la fede in una positività della ragione lasciano spazio a stati d’animo indefiniti ad una risorsa nuova, quella dell’improvvisazione, nel tentativo di rubare tempo al tempo, vita alla vita.
Allora, pur non potendo rivivere e rifare l’esperienza dell’armonia, ci si ritrova disposti a vivere giorni più “maturi, più distesi” se accolti con adulta e consapevole accettazione. Così il tempo del dolore diventa tempo della scoperta dell’altro per come l’altro è, per il valore che l’altro è in sé e non per ciò che suscita, insieme ad una struggente ed ”indicibile afflizione” e con la convinzione di aver compiuto un percorso che apre ad un ”tempo che trasforma” “germinato” da una così intensa esperienza.
Penso che entrambe le sezioni siano davvero il centro di questo libro, che prosegue poi per altre tappe. Abbeverata ad un “acqua breve”, scoperta con “pazienza tra i sassi prosciugati”, la Musetti ci conduce all’interno di Spostamenti. L’errabondare ora è divenuto un “restare sui limiti”, l’andare un rientrare, un continuo esercizio per creare uno “spazio dentro”; e l’isolamento non sembra più una perdita, ma una necessaria contrazione per un ulteriore “slancio del frammento” che siamo, solamente uno slancio, visto che la “vita ribalta ogni consenso”. La prospettiva conoscitiva si fa sempre più introspettiva, lo sguardo cerca “dentro la materia” il “battito del tempo”, nel tentativo di una sintonia col “ritmo del cuore”, per riemergere alla vita.
Siamo nelle vicinanze di esperienze che toccano i vertici della percezione dell’Infinito, perchè è proprio nel “punto accidentale”, se volete nelle occasioni di memoria montaliana, che può disvelarsi l’Assoluto, che apre al “momento misterioso della creazione artistica”.
E dunque ecco emergere le Non ordinate confluenze, quelle intersecazioni esistenziali che, sfuggenti al calcolo, al progetto volontaristico, quanto inutile, dell’umano, ci aprono a prospettive nuove e sorprendenti della vita. Giunto a questo stadio l’itinerario poetico perde qualcosa sul piano del sentimento, e diventa una riflessione sulla stessa natura del conoscere; la referenza perde la sua profondità, si spezza il legame tra cosa e parola, tra realtà e linguaggio e tutto si riassume nella “scelta di una forma che riveli il mondo”. Siamo dentro un magma in cui ogni cosa non ha sostanza, se non in un continuo apparire, deformato dalla struttura stessa degli enti e della realtà che ad un tempo accolgono e per altro producono la foresta delle immagini in cui viviamo.
In un ambiente antropizzato e cangiante, come quello metropolitano, la poetessa ritrova il suo habitat più familiare, “trovando cavità dove si perde la mente”, “rincorrendo rotaie/oltre le curve”, struggente immagine di un universo dove esistono solo traiettorie, interscambi e non un luogo di vera stasi ed incontro.
È a suo agio la poetessa, vero “animale cittadino”, in quell’ambiente dove tutto è una perenne metamorfosi, vera “pietra focaia” dell’intelligenza e della fede nel conoscere. In A qualunque età la Musetti sale un ulteriore gradino, e lo sguardo si fa ancora più preciso e distaccato, si osservano i fenomeni e li si vede nascere e morire ad una velocità che non contempla pause: sotto un plumbeo cielo di voci tutto “sfila” nella tenaglia del tempo, tutto, salvo “gli argini” indistruttibili “dei campi”, ovvero salvo quell’immodificabile struttura che siamo e che mai compiutamente riusciamo a comprendere.
In questa nozione dello spazio/tempo dove tutto non è che un fenomeno ”ripetibile/ripetuto in cento luoghi/ uguali”, può accadere di pervenire ad una “qualche demarcazione impropria”, ad un momento di svelamento del verità (in senso heideggeriano), pur trattandosi di un qualcosa di effimero, privo di reale sostanza e durata. Eppure è a quell’ “attimo che fugge” che va il pensiero della poetessa, poiché la verità si dà sempre, non nelle categorie che danno ordine alle esperienze, ma nell’intuizione interiore capace di qualcosa che reca in sé il senso dell’inedito o del nuovo, qualcosa che riesce ad “illuderci di un altro giorno” “a qualunque età”.
Il viaggio ora si appresta a finire e ci accorgiamo, con la poetessa, che tutto ciò che siamo e sappiamo è riassumibile nella nozione del frammento. Ridotti a “particelle di esistenza” avvertiamo il profondo vuoto, abissale, del nostro essere: percepiamo di essere solo “una mancanza” che ci avvicina alla perfezione. È nel tempo ultimo che ora si dischiude “l’io si fa da parte, si ritrae”, mentre si “mette a fuoco” una prospettiva diversa che finalmente “lascia spazio a ciò che accade, indipendente da noi”, e quel che accade, ovvero il dono più grande dell’attimo che siamo e che viviamo, si chiama Bellezza, un termine che Keats coniugò mirabilmente con quello di Verità.
Biagio Accardo
poi siamo arrivati a Manchester
per le prove legate al tuo lavoro
quei palloni di vetro così sottile
dove i monomeri si contano perfino
i gas si scontrano in velocità incostante
così inesperti e giovani da non sapere
che il rognone di agnello
è anche dolce con la gelatina
così distratti da sbagliare sempre
orario
arrivando a cena tardi
affannati e stanchi per un languore
insopprimibile
e mai il cameriere è riuscito
a svegliarci all’ora concordata
così ingenui da stupirci
per quel half a pint servito a me
nella Versilia in tenda
con un bambino piccolo
giocavamo a fare i genitori
tra le cicale che tutto
il giorno assordano
e quel silenzio improvviso che
ci coglieva a sera impreparati
era uno stacco repentino
come uno spazio vuoto
fenditura netta che agghiaccia
prima della notte
ma il temporale e poi la febbre
hanno dirottato la vacanza
in quell’albergo fin de siècle
coi sorrisi impacciati a guardare
i nostri vestiti nel salone
delle cristallerie
si è quel che si è
non c’è remissione o scampo
saperlo non è facile – accampo
un’ideuzza peregrina:
se non ignori lo stato
che incarni maturi giorni
più distesi – pur senza arrivare
all’armonia
casolari sparsi tra la nebbia
l’acqua di un laghetto
piatta riflette
una grigia giornata
l’attimo che fugge
racchiude una verità
forse allontana il sensato giudizio
illude di un altro giorno
a qualunque età
rimanda soltanto
il fragile assillo
di una vita immutabile
tra Roma e Caprera
con i licheni da un lato solo
batte il vento di Bonifacio
piega i ruvidi asfodeli
a cielo aperto fischia
tra i bassi ulivi e i sughereti
fino alla piana e guarda il mare
ho visto Antonella dagli occhi neri