Mito e Logos: la malinconia di Saturno

La malinconia di Saturno
 
 

Saturo è un dio solitario, triste perché è consapevole della caducità e della morte. Il suo glifo è dato da una croce con un cerchio di mezza luna che parte dal braccio inferiore e si sviluppa in basso a destra. I Nativi Americani chiamano la luna “la nonna”. Siamo di fronte alla mitologia della vecchiaia, della decadenza e della fine di ogni cosa. Il dio rappresentava la malinconia unita alla saggezza, il carattere “atrabiliare”, cupo secondo la teoria degli umori di Ippocrate e più tardi di Galeno, il medico personale di Marc’Aurelio (secondo secolo d. C). È a lui che pensa Aristotele quando scrive “La malinconia dell’uomo di genio“, bellissimo testo pubblicato dalle edizioni Il Melangolo. L’atrabile o “bile nera” si credeva situata nella milza. Ma perché, oltre che responsabile della melanconia, è pure tratto caratteriale del superdotato? Avere la forza, l’ardire di guardare in faccia il dolore senza rimuoverlo rende l’uomo consapevole, capace di previsione, veggenza, soluzioni. Un eccesso di atrabile sviluppa le passioni fino al loro estremo limite. I “Poemi Saturnini” (1866) di Verlaine sono lì a ricordarcelo. Egli scrive in “Canzone d’autunno”: “I lunghi singhiozzi dei violini d’autunno / mi feriscono il cuore / con monotono languore.” Singhiozzi, musica, ferite… è irriducibilità della sofferenza scaturita dalla perdita. L’autunno parla della fine dell’anno e delle cose.

Un altro grande poeta medievale, Cecco d’Ascoli, anche medico, astrologo, un “Fedele d’Amore” al pari di Dante ma di cui volle essere sempre rivale, così descrive Saturno: “Quella trista stella tarda di corso e di virtù nimica che mai suo raggio non fé cosa bella“.

Cecco fu arso vivo al rogo a Firenze il 16 settembre 1327, per le sue tesi considerate eretiche. L’artista si poneva in posizione critica verso il cristianesimo. Bastava poco allora per finire in disgrazia.

Saturno il dio infelice. Ma all’origine non era così, la primitiva età dell’oro, la felicità sulla terra senza odio, leggi e inimicizie nasce proprio nel regno di Saturno. Le feste romane dei “Saturnali”, vicine per significato al nostro carnevale, celebravano questo stato paradisiaco. Che deve necessariamente aver termine, come termina la felicità indiscussa del feto galleggiante nel liquido amniotico. “Nascere è dolore” sentenzia il Buddha.

Il corrispondente del Dio Saturno romano è Kronos, il tempo, divinità per olimpica, figlio di Urano il cielo e di Gea la terra. Egli divora i suoi figli, infatti il tempo travolge tutto, è “Il libro di sabbia” di Borges, ma pure “l’Antico dei giorni” degli ebrei e di W. Blake.

Il racconto di Esiodo narra che, spinto dalla madre Gea, Kronos evira il padre Urano addormentato, che non voleva far nascere i suoi figli, perennemente incubati nel ventre di Gea. Sarà poi Giove figlio di Kronos a spodestare suo padre. Giove viene salvato dalla voracità paterna perché al suo posto viene data una pietra in pasto al genitore. Qui è illustrato tutto l’iter del complesso edipico freudiano prima di Edipo. È la gelosia istintiva tra padri e figli, la lotta per la vita, legge di annientamento, in vista della perenne rinascita.

Sono storie e miti terrificanti, superabili soltanto con l’autoconoscenza.

Uno straniero giunto ad Atene disse a Socrate di leggere sul suo volto tutti i vizi del mondo. Socrate lo ammise, ma aggiunse di averli tutti superati.

Viviamo per compiere in noi un simile processo alchemico.

Graziella Atzori