La causa dei giorni, Cinzia Demi (Interno Libri, 2022)
È un’orchestrazione tra memoria e tempo presente la poesia che Cinzia Demi ha raccolto nel libro La causa dei giorni (Interno Libri, 2022, prefazione di Giovanna Rosadini). La voce poetica è tesa a ricostruire il senso di un’esistenza, risalendo ai giorni e ai luoghi dell’infanzia per giungere fino agli snodi della vita adulta. Il testo eponimo, La causa dei giorni, che precede la suddivisione in sei sezioni del libro, esordisce con un verso esemplare: bisognerà capire cosa ci porta. Il motivo del libro è così dichiarato, l’indagine mira a individuare le cause prime, l’origine delle azioni e delle vie intraprese, dando luogo a un affresco, ora commosso ora lucido, della catena consequenziale di eventi di cui consiste un’intera vita. Se a ogni causa segue un determinato effetto, potrebbe essere bandito, o almeno ridimensionato, ogni rimpianto: ogni cosa ha predisposto la successiva, niente poteva andare diversamente da come è andato. Perciò dal testo non emerge delusione o rassegnazione, ma piuttosto la consapevole accettazione della quota di gioia e dolore che ogni esistenza porta con sé: “e un tempo immobile non / spiega non glorifica ma non / rinnega la causa dei giorni”.
Dopo la poesia proemiale, la prima tappa del percorso è costituita dalla sezione Di madre in figlio, il cui tema è appunto la forza del legame tra madre e figlio, e la congerie di sentimenti contrastanti, tra desiderio e necessità, che nascono quando un figlio si allontana dalla casa materna: “lascerai la mia mano / lascerò la tua mano / saranno onde altissime / schiuma che stropiccerà / le vesti sale sulla pelle”. Anche qui a dominare non è la riflessione dolente, ma la tensione conoscitiva intorno al senso delle esperienze, così che la storia dell’una possa prolungarsi in quella dell’altro: “del mio paese ricordo / l’innocenza del mare // […] // cosa ricorderai tu / cosa amerai di questa città”.
Un carattere determinante della poesia di Cinzia Demi è la pervasiva presenza di elementi naturali, evidente sin dal primo testo e in pieno rigoglio espressivo nel poemetto Nel nome del mare. Qui la misura si dilata e conferisce ai componimenti un andamento narrativo, senza tuttavia mai cedere al prosastico. L’intero libro conferma l’attitudine lirica dell’autrice e la cantabilità del verso, fitto di rime, consonanze, assonanze e altre figure della tradizione poetica. Nel nome del mare è la sezione dedicata ai luoghi delle origini, il paesaggio marino e la sua vegetazione appartengono all’area di Piombino, paese di nascita della Demi. È una ricognizione affettiva che dice non tanto della nostalgia di un tempo perduto, quanto del legame inscindibile con il proprio passato, riscattandone forse la fine con la minuziosa e corale nominazione degli elementi concreti e sensoriali che ne compongono il quadro: golfi e pietre, alberi e case, colori e sapori (“e aspettando ancora si torna all’inizio / si alzano gli occhi / agli alberi che sono già primavera / la strada è più corta ora / e di quel cartellone lo scritto è sbiadito”). Soprattutto il mare, con i suoi azzurri cangianti e il movimento perenne delle onde, diviene emblema di un’anima inquieta, di chi è sempre in cerca di nuove rotte per il proprio cammino.
Nella sezione A volo radente il verso si fa scarnificato e teso, come a dare risalto al sentimento nella sua essenza e nudità. C’è una realtà dolorosa e greve che cerca consolazione e vie di rinascita, e la chiave di volta è il termine volare, replicato in diverse modulazioni: “volare / in questo istante di poca luce / vorresti solo volare / radente”, “e volare giù giù nella / fossa”, “ma volare, no / non sapevi / volare”. I testi della sezione sembrano disegnare una sorta di parabola ascendente, partendo dal basso del volare radente nella poesia iniziale fino all’alto volare dei versi conclusivi: “con le ali d’argento / che ti fanno creatura / celeste ora che puoi / salire più in alto le scale / ora che puoi volare”.
L’inclinazione alla musicalità, alla parola pronunciata come una formula liturgica, si accentua nella sezione Materiale non riciclabile, dove il ricorso all’anafora non è occasionale, bensì strumento principe per affrontare temi che sono a fondamento della condizione umana, in una sorta di preghiera laica che comprende tutto il bene e il male dell’essere al mondo: “noi per la vita / noi per la morte / noi per l’eterno sentire / noi per non capire / noi che fummo e che siamo / l’umanità dolente”.
Il medesimo sentimento di comunanza si avverte nei testi della sezione Quel segno che manca, composti a scandire i tempi della pandemia, con le sue clausure e l’isolamento, con le sue sofferenze e la conta degli scomparsi, con il desiderio spasmodico di nuovi giorni: “melodia che accenna / la parola fine a questi mesi / di vuoti d’aria e prigionia / dove l’unica compagnia / è stato il vento e lieve di / contralto il verso dell’assiolo”. Al senso di fragilità che ci ha invaso abbiamo tentato di rimediare cercando riparo nella natura o tra le pareti della nostra casa. Non a caso Cinzia Demi dispone in chiusura L’ombra delle case, la sezione in cui passa in rassegna le dimore abitate nel corso degli anni. Una elencazione concreta e metafisica allo stesso tempo, da sfogliare come un album di oggetti e di ricordi, di fantasmi e di presenze. Ogni casa ha contorni ora precisi ora sfumati, ogni casa ci somiglia. È bello pensare che l’ultima è un giardino.
Daniela Pericone
bisognerà capire cosa ci porta
a credere nei grani a farne
sabbia di clessidra tra le mani
a non rompere i cristalli dorati
a tornare là dove siamo nati
nella casa con le pareti bianche
dove ogni cosa ha un nome
che chiamiamo ogni confine
è un richiamo che rapido svalica
si espande nel mondo
in un sussulto di folate tra
bacche d’acacia e lino chiaro
nella luce obliqua delle persiane
nel sacramento giurato sul
simulacro trasparente del mare
bisognerà capire cosa ci resta
della pazzia della festa del
calore di fiamma che ancora
difende la giovinezza
dei nostri corpi abbracciati
nell’alba tra i vapori, mentre
sprofonda l’ombra delle sagome
che ci furono accanto e d’un
tratto la memoria è un male
stordente l’umanità affonda
nella ragione oscura
i papaveri stentano a fiorire
e un tempo immobile non
spiega non glorifica ma non
rinnega la causa dei giorni
aspetti sempre che qualcosa succeda
mentre alzi gli occhi
agli alberi che temono l’autunno
la strada si è fatta più lunga e
quel cartellone ieri non c’era
è una milizia certa quella del tempo
da assoldare nell’esercito mercenario
per le guerre sull’altare di pietra
nella chiesetta – frontiera del Golfo
contro il pallore del mare d’ottobre
pagarlo e lasciarlo libero di fermarsi
un poco a riposare senza fretta
provare a bagnarsi le mani dove
scorre la sabbia di ematite
raccogliere una scheggia di zucchero
e costruirci un bicchiere
bere un sorso di maestrale
da quella breccia che ingrossa
l’aria di sale antico e tamerici
magari è così che si cresce
dopo il pane con zucchero e vino
dopo le vendemmie e le rose
quando tutte le cose sfumano
in un sentire lontano e dici
è così che si cresce per le croci
da cui siamo fuggiti
per quell’aria soffocante di casa
dove l’orizzonte era solo una linea
magari è così che s’incontrano teatri
con le quinte a colori vivaci
rammendate che non importa quanto
è così che si consumano chilometri
si stringono corpi si gettano paramenti
argenti s’indossano senza più valore
senza l’ardore che ci fece scuola
e aspettando ancora si torna all’inizio
si alzano gli occhi
agli alberi che sono già primavera
la strada è più corta ora
e di quel cartellone lo scritto è sbiadito
volare
in questo istante di poca luce
vorresti solo volare
radente scoprire
un raggio d’arancio
oltre le tegole le fronde
altissime degli alberi
le onde maiuscole
dei porti
mentre la neve
cade gli occhi sui prati
e lui ti resta
nelle sillabe delle mani
negli abiti del cuore
nel silenzio che si fa giorno
è fuoco la strada che svolta
dal bivio poi sale e alle curve
sul declivio di ulivi ti mostra
il suo spicchio di mare che
scappa che insegue il maestrale
luglio gentile ci prova
a incrociare funivie di pensieri
a prestare balocchi ciocchi
di rami resina di pini
da incensare su altari forbiti
ma sono riti che aprono
alla sera all’ombra dei balconi
toccano il grembo e l’ala
paurosa della terra colpita
franta scorza dopo scorza
vai di fretta mentre
s’aprono le stanze possiedi
la scure che s’abbatte sui
lini immacolati rubi il muschio
delle rose ti posi sulle cose
ma il cristallo vacilla
e resiste le grida si fanno
sorrisi arterie lucenti trombe
nel vano di scale nelle vene
e nei vapori sirene aurore
vince la vita in quest’azzurro
che esplode s’addossa alla
parete odorosa di guance di gigli
di mani e tamerici si scatena
la pioggia e una gioia di madri
l’ultima è un giardino
che mai sarà uguale
alle forme dipinte
degli abbracci alle
parole della terra
che si apre e geme
non una finzione
ma un tesoro lieve
che muove e riposa
nel sacro dell’impronta
dove si uniscono i segni
e passa il filo dalla cruna