Ivan Crico suggerisce Virgilio Giotti

 
 
 
 
Vècia mòglie
 
La xe in leto, nel scuro, svea un poco;
e la senti el respiro del marì
che queto dormi, vècio anca lui ‘desso.
E la pensa: xe bel sintirse arente ‘
’sto respiro de lui, sintir nel scuro
che’el xe là, no èsser soli ne la vita.
La pensa: el scuro fa paura; forsi
parché morir xe andar ‘n un grando scuro.
‘Sto qua la pensa; e la scolta quel quieto
respiro ancora, e no’ la ga paura
nò del scuro, nò de la vita, gnanca
no del morir, quel che a tuti ghe ‘riva.
 
 

Vecchia moglie

Se ne sta sul letto, al buio, tra la veglia e il sonno; / e il respiro del marito ascolta / che dorme calmo, vecchio anche lui ormai. / E pensa: è bello sentire vicino a sé / questo suo respiro, sapere nel buio / che lui è lì, non essere soli nella vita. Lei pensa: il buio fa paura; forse / perché morire vuol dire andare verso un buio più grande. / Questo lei pensa; e ascolta quel calmo / respiro ancora, e non ha paura / più del buio, né della vita, nemmeno / della morte, che per ognuno di noi arriva.

 
 
 
 

Virgilio Giotti, pseudonimo di Virgilio Schönbeck, nacque a Trieste nel 1885. Dal 1907 al 1919 si trasferì, facendo il rappresentante di giocattoli e oggetti dell’artigianato fiorentino, in Toscana, mantenendo i contatti con quei giuliani, come Marin, gli Stuparich e Michelstaedter, che a Firenze gravitavano attorno alla “Voce”. Nel frattempo Giotti continuò a dedicarsi alla pittura, la sua prima vocazione, distinguendosi come un fine e sensibile disegnatore, soltanto in questi ultimi anni rivalutato come uno dei migliori della Trieste del tempo. Nel 1914, sempre a Firenze presso l’editore Gonnelli, uscì la sua prima raccolta, Piccolo canzoniere in dialetto triestino. Rientrato a Trieste, aprì un’edicola impiegandosi, in seguito, presso varie amministrazioni. Nel 1928 uscirono Caprizzi, Canzonete e stòrie presso le edizioni “Solaria” a Firenze e, sempre con lo stesso editore, nel 1931, la raccolta di testi in lingua Liriche e idilli. Nel 1941 uscirono Colori presso Parenti a Firenze. Due anni dopo, mantenendo lo stesso titolo, una raccolta riuniva i precedenti lavori con l’aggiunta di un nuovo gruppo di testi presso le “Tre Venezie” a Padova. In edizione privata venne stampata Sera, che fu ripubblicata nel 1948 da De Silva di Torino. Nel 1953, invece, uscirono presso le “Edizioni dello Zibaldone” Versi, da cui è tratta la poesia che qui si propone, “Vècia mòglie”. Infine nel 1957, anno della sua morte, apparve la raccolta Colori da Ricciardi. Testimonianza dei suoi ultimi, dolorosi anni di vita, funestati dalla scomparsa dei due figli in Russia e dai disturbi nervosi della moglie, sono le prose di Appunti inutili (1946-1955), stampate a Trieste nel 1957.

Nelle poesie della sua tarda produzione, come anche in questo testo esemplare, raro e altissimo esempio di lirica dedicata all’amore coniugale trascritta sui confini ultimi dell’esistenza, si assiste ad un inesorabile distacco dalla levità e dalla precisione miniaturistica dei suoi primi lavori in cui, a volte, poteva essere sufficiente la perfetta descrizione di un’immagine per evocare un’idea di realtà colta nel mistero del suo mostrarsi, a testimonianza di un amore sempre ribadito per ciò che è semplice, quotidiano, lontano da ogni enfasi. Una dimensione appartata, lontana dai grandi eventi ma in cui forse, ancora, era possibile scorgere il riverberarsi di qualche nascosta rivelazione. L’esattezza giottiana in seguito si traforma in un mezzo per raffigurare, come in uno specchio spietato, i lineamenti di una vita oscurata da una mancanza assoluta di illusioni, speranze. Accerchiata da una sempre più silenziosa e come pacificata, nella sua disperata stasi, solitudine. Bruciato ogni residuo di letterarietà, la parola diventa l’èco diretta di una dolorosa verità interiore che rade, come un vento nitido e asciutto, uno spazio denudato dall’attesa. Un presente in cui si mescolano i segni del passato e presagi cupi di fine e dove l’idea di continuità si sfalda inghiottita in uno smarrimento, quasi come in certi testi sbarbariani, privo di risposte. Nella grazia dimessa e mai banale dei suoi primi lavori come nella parola prosciugata, inconsolabile di questi suoi ultimi testi, l’opera di Giotti continua a dimostrare una modernità d’intenti che la rende forse fra le ricerche più pure, anche se spesso trascurate, della nostra poesia.

 

Ivan Crico

 
 
 
 

Virgilio Giotti, nato il 15 gennaio 1885 a Trieste, è il maggior poeta in dialetto triestino, premiato nel 1957 dall’Accademia dei Lincei. Dal 1907 al 1919 vive a Firenze, dov’era fuggito per evitare il servizio militare sotto l’Austria; nel 1912 conosce la sua compagna, Nina Schekotoff e rimarranno insieme per tutta la vita. In Toscana avrà i tre figli; Natalia, detta Tanda, nel 1913 e poi Paolo e Franco (1915 e 1919), che moriranno durante la seconda guerra mondiale in Russia. Conosce i fratelli Stuparich, Scipio Slataper e Biagio Marin. Nel 1920 ritorna a Trieste e va ad abitare in Via Lamarmora dove vi rimarrà fino alla morte. Lavora prima come edicolante in Cittavecchia e in seguito come impiegato presso l’ospedale Maggiore. Muore a Trieste il 21 settembre 1957.