Istruzioni per la luce – Luca Benassi


Istruzioni per la luce, Luca Benassi (Passigli, 2021, Prefazione di Elio Pecora).

Istruzioni per la luce di Luca Benassi è un’opera composita ma solida, che può avere differenti livelli di lettura: un primo, concentrandosi sull’intellegibilità dei testi presi indipendentemente; un secondo leggendo le singole sequenze che costituiscono le svariate sezioni tematiche che lo compongono; e un ultimo, unendo i primi due livelli di lettura, ma tenendo sempre a mente il titolo della raccolta, come fosse una lanterna, una chiave interpretativa con la quale vedere sotto una luce diversa, più profonda e quasi escatologica, le parole che ci vengono offerte.

In questo libro, caratterizzato anche da una costanza di livello espressivo non scontata, l’autore offre l’alternarsi di riflessioni, di squarci, di storie e descrizioni che riguardano l’universale umanamente inteso (l’ingiustizia, la malattia, la ricerca di Dio, gli eventi della grande Storia d’Occidente quali lo sgancio della bomba su Hiroshima, il disastro di Cernobyl, il massacro delle Fosse Ardeatine, ecc.), ma decostruendolo da un fatto unilateralmente noto alla pluralità iper-specifica dei punti di vista degli attori-spettatori che da quell’evento sono stati toccati, nel tentativo di affrancare lo stesso evento dai toni cattedratici e, anzi, di ricollocarlo all’interno di una storia minima ed esemplare, di un fatto, di un momento, di vie e luoghi precisi, e di esseri nominabili, ma non in veste di protagonisti assoluti, bensì come singoli, persone in carne ed ossa alla base della Storia, capaci di scelta, di fragilità, di errore e – nel senso più ampio del termine – di umanità.

È così che la prima sezione intitolata “Gli ultimi” apre la raccolta a una voragine. Essa costituisce infatti un primo baratro, una tabula rasa, il vicolo cieco del buio atto a farsi approdo e dunque sentiero per la ricerca della luce, poiché «Bisogna farsi piccoli perché i pidocchi/ non trovino sangue abbastanza […]. Bisogna farsi piccoli perché gli occhi/ ti accarezzino dove sei peggio» (p. 19).

Senza nome, però, non sono solo gli ultimi, i reietti, i clochard della prima sezione, ma anche esseri umani, innocenti o meno, che perdono la loro individualità a fronte di un evento, di una catastrofe su scala maggiore che per sua natura risulta più vistosa e abbacinante. L’operazione dell’autore sembra infatti, per contro, quella di strappare al buio dei numeri i loro nomi, e alle statistiche dei grandi eventi della Storia i minuscoli fatti e dolori quotidiani di chi in quel momento c’era, per sottrarli all’oblio anonimo della matematica e della cronaca, e restituirli alla loro umanità fatta di sogni e ricordi, di verità, di emozioni e pensieri.

Il risultato paradossale di questa operazione, è che rimpicciolendo da un lato l’evento osservato da singole strettoie, questo ne risulta potenziato e catalizzato in maniera esponenziale attraverso le stesse strettoie da cui ne era prima uscito ridimensionato.

Tuttavia l’azione reiterata di nominare, incarnando e immortalando così al contempo chi nome non lo ha, riconsegna anche le persone all’enormità, alla miseria e alla caducità di ogni essere vivente e di ogni sua responsabilità. Ciononostante, Benassi non cede mai alla comodità di puntare il dito, non è volto a condannare o assolvere; la sua è piuttosto una voce mai assertiva, ma come sussurrata, pacata e calma, sempre colma, nonostante e al di là di tutto, di pietas. La posizione dalla quale l’autore parla, come forse suggerito dalla seconda sezione, non è difatti il pulpito, ma nemmeno il fango. Chi scrive queste pagine si trova in una posizione mediana, a sufficiente distanza d’analisi, ma abbastanza vicino per non risultare asettico: «Io sono qui, a metà strada di tutto,/ nel gioco felice dei partenti/ nel dolore degli addii/ a chiedere il mio angolo di paradiso,/ il mio acconto di luce/ con gli occhi lasciati sull’asfalto/ e un cuore blu, pieno di tumulto» (p. 26).

A onore del vero, in questa raccolta ricorrono anche alcune delle tematiche familiari all’autore, come la genitorialità, l’afflato spirituale che percorre trasversalmente l’opera, o il luogo-tema della stazione ferroviaria. Qui, se la linea gialla si fa limite, terra di nessuno come acque internazionali, i binari diventano un luogo, un’aporia esistenziale, se intesi come stasi e non come spostamento. Il binario segna allora uno spartiacque, l’emblema di una catarsi, rito di cicli, di arrivi e partenze, di incontri e addii, di libertà e divieti, tramutandosi nell’allegoria di una fede dialogica che non è mai cosa data, ma dono e scoperta di infinite possibilità, di ricerca e pazienza, di attrito e di crescita, dove poter tentare il «dubbio dei passi» (p. 30) che ci rende esseri umani.

Prima di concludere, nonostante fin qui si sia soprattutto parlato dello sforzo del poeta di «dare un volto a questi nomi dissolti» (p. 82) nella Storia, e quindi di rendere particolari dei fatti generali, è degno di nota il suo dettato calibrato nel quale l’esondare dell’io lirico viene continuamente sorvegliato e tenuto a bada. Non è dato qui un tripudio del personalismo, giacché se il suo oggetto è assurto sempre a soggetto, d’altro canto l’autore non concede a se stesso altrettanto. Questa infatti, sebbene conosca il ritiro – in maniera indirettamente proporzionale, e anzi speculare a quanto detto finora in merito alla modalità di trattare le sue tematiche – non è un’opera intimista, a meno che non si sia in grado di scorgere nel profondo, nell’universale, nel distante, nell’altro da sé di cui così spesso tratta, un filo che tutto e tutti profondamente accomuna e irradia, come l’ io-tu de Il principio dialogico di Martin Buber: «Se sto di fronte all’uomo come di fronte al mio tu, se gli rivolgo la parola fondamentale io-tu, egli non è una cosa tra le cose, né è fatto di cose. Non è un lui o una lei, limitato da altri lui e lei, punto circoscritto dallo spazio e dal tempo nella rete del mondo […]. Ma, senza prossimità e senza divisioni, egli è tu e riempie la volta del cielo. Non come se non ci fosse nient’altro che lui: ma tutto il resto vive nella sua luce.»

In maniera analoga, tornando al titolo, se «la luce è un germoglio di cenere» (p. 84) che procede per lampi e per contrari, ecco allora – come suggerito dall’ultimo testo della sezione dedicata al disastro di Cernobyl – che la Storia e la catastrofe possono divenire occasione di riscatto, di conoscenza e ricostruzione, anche se a costo di perdere il nostro antropocentrismo; e le istruzioni per la luce, impossibili ad essere esplicitate, alla fine del percorso si risolvono con sapienza nella chiusura di un cerchio che diviene rinascita, nella speranza di nuove ere, nell’ostinato «venire alla luce» del tu di nuove generazioni.

Dario Talarico

 
 
 
 
(Via Grotta del Miracolo)
 
E quali calcoli puoi offrirmi, dolce
ingegnere del senso, con lo sguardo
del bosco e le mani piene di mare?
Quali soluzioni al mio tremare,
duro, fra i sassi della spiaggia?
 
Siamo stati nella stanza delle stelle
nel silenzio della notte dei bimbi
sotto l’occhio lucido delle comete.
 
Mi hai dato un latte che sapeva di mare,
io un respiro muto per tagliare le attese.
 
Ci siamo trovati. Ci siamo bastati.
 
 
 
 
 
 
(cercando Dio)
 
Mi chiedo dov’eri all’alba più vera,
quando i sogni si fanno latte
e le parole entrano nelle palpebre
come aghi nella luce.
Mi chiedo cosa potevi dire
quando mi contavano il sangue
nel reticolo azzurro delle vene
e il corpo si faceva molle e dolce
come una carta tagliata dai referti,
nella gioia dei vagiti, nella corrosione
dei rimorsi.
 
Ora quasi dai fastidio
come una luce accesa all’improvviso
sugli occhi schiacciati
contro il buio.
 
 
 
 
 
 
(le cave)
 
Non avete pianto, né chinato il capo
al volto della pietra, alle unghie di roccia
che vi scavavano la schiena
inginocchiati ai ferri premuti sulla nuca.
Io vi ho accolto, oceano di buio
tenera trama di cenere
nel ventre di questa tomba vuota, mai usata.
Miei sono i cunicoli, il cavo dei vasi
nelle bocche spalancate ai colpi
mie le polveri che celano le vostre ossa,
gli altari scavati, le lapidi
le liste incise nel bronzo
mio il dolore, la carne, mio il silenzio.