In medio cielo, Pierangela Rossi (Il Convivio Editore, 2020).
La poetica luminescente dell’ultimo libro di Pierangela Rossi (uscito per Il Convivio Editore nel 2020) è condensata nel titolo In medio cielo, nella sua evocazione di una dimensione aerea e spirituale, da un lato, e di un’attitudine che rifugge gli estremi, dall’altro. Dice bene Giuseppe Manitta quando nella prefazione allude a «una condizione di appartenenza e disappartenenza perché la considerazione di trovarsi “in medio”, cioè nel mezzo, rimanda alla caratteristica della sospensione, cioè dell’essere e del non-essere al contempo». Non si può non pensare, dunque, alla nota locuzione latina in medio stat virtus, quale richiamo all’ideale classico del giusto mezzo, della moderazione, dell’equilibrio. Questo insieme di virtù costituisce la cifra essenziale dell’indole poetica di Pierangela Rossi. La conferma di una misura che coinvolge vissuto e poesia si presenta sin dai versi di apertura: «Non si può sopportare troppo splendore / in una volta, siamo piccoli / gli occhi e il cuore vengono a mancare / dopo un’estasi di luce o amore».
Lo sguardo dell’autrice è sempre in cerca di una fonte luminosa, perciò predilige rivolgersi alla vastità del cielo, considerato sia nella prospettiva concreta del paesaggio milanese, sia come simbolo del divino. Il lemma cielo è una costante nell’intero sviluppo della raccolta, fino a un verso che risuona come una dichiarazione e non lascia dubbi sulla natura del sentimento di sé: «io appartengo al cielo». L’altezza celeste si fa di volta in volta scenario cangiante di colori, dal rosa delle albe e dei tramonti all’azzurro intenso delle giornate di sole: «Una parusia di luce / nell’azzurro. Azur azur. / Azulejos. Frammenti / d’azzurro colmi.». Affermare la supremazia del giorno rispetto all’oscurità della notte è una modalità garbata di resistenza alle difficoltà della vita, laddove il buio, pur sempre attenuato dal lucore lunare, è solo uno stato transitorio in attesa che giunga il mattino: «Un baluginio nel viale. / Il disco tutto d’oro del sole. / Un attimo e il giorno è fatto».
La poesia di Pierangela Rossi palpita di una sorta di respiro biblico, che si esprime con un linguaggio limpido e diretto e l’utilizzo di strofe brevi, oscillando tra la notazione diaristica e l’intonazione gnomica. La saggezza dell’Ecclesiaste, citato esplicitamente in un testo, riecheggia in più di un’occasione: «c’è un tempo per ogni cosa. / […] / Siamo creature fragili / legate a doppio filo alla terra.», e ancora «Nient’altro di nuovo, / solo il sole è ampio / e tagliente su tutta la pianura / che si lascia scorrere di sguardi / come sempre». L’osservazione dei piccoli eventi del quotidiano e dei movimenti naturali conduce a una poesia nitida e lieve, come il volo degli uccelli che popolano i versi e lo spazio, legando la terra al cielo. Una teoria di presenze minime, quasi inavvertite, se non fosse per la sensibilità del poeta che accoglie il loro canto: usignoli, orioli, rigogoli, colombi e soprattutto «rondini al mattino da seguire / nelle evoluzioni nelle ellissi, / rondini la sera da contemplare».
La natura con i suoi elementi, dunque, è campo d’ispirazione privilegiato, è incanto e consolazione, lo si avverte con particolare evidenza in una serie di terzine che richiamano, per analogia di concisione e atmosfere, le illuminazioni degli haiku: «Nel grande autunno pluviale, / si fa strada la luce / e tutto cancella e indora.», oppure «Una mosca minuscola / esplora in lungo e in largo / la terra dell’ulivo rigoglioso.». La scrittura dà risalto a ogni sommovimento, a ogni sia pur piccola creatura, senza distinzioni o gerarchie, in un solo accoglimento.
Il filo teso della poesia racchiusa nel libro In medio cielo è il suo slancio metafisico, la sua posa contemplativa; anche quando ci si addentra «nelle anse e nel timore», o appare l’ombra di un «cielo ripiegato / su una dolenzia», Pierangela Rossi mantiene intatta la fede nella parola che descrive e lenisce, rimane salda a guardare la sua vita «crescere in dignità e bellezza».
Daniela Pericone
Non si può sopportare troppo splendore
in una volta, siamo piccoli
gli occhi e il cuore vengono a mancare
dopo un’estasi di luce o amore
persino dell’amarezza ci si stanca
in cambio di un po’ di quotidianità.
Chi ha fatto il turno
di notte? Sono io
la sentinella della notte.
Quanto manca all’alba?
Una luna piena
si specchia nei miei occhi
e lì risplende.
Risplende per sempre.
Certi giorni mi mancano le parole
qualcosa, chi, perché si oppone
al flautato evento di parlare.
Ritorneranno fuori contesto
le parole, troppo troppo tardi.
Sento il rumore del vento
del virus del polline.
Entro in profondità
nelle anse e nel timore.
Là dove si annuncia
un’Apocalisse privata.
Una parusia di luce
nell’azzurro. Azur azur.
Azulejos. Frammenti
d’azzurro colmi.
Ricordi? La curvata
statua di Pessoa.
Tristezza di Natale
nel deserto delle strade
di Lisbona.
In cielo un bioccolo
di nubi. Della luna
straparla il fatale
poeta insonne
e segue il periplo
vitale: di questa
stanza-esilio.
Dentro e dopo
il gran silenzio
la mattina è lo specchio
della sera. Canta
Crisostomo e rovescia
tutto l’esistente.
Solo, l’alba ha un rosa
in più del tramonto.
Sarebbe bello
un giorno senza pena
ricordando giorni gai
e di sventure colorate.
Ma tu non chiedere
in medio cielo
all’eterno altri segni.
Bastevoli sono
quelli che ti manda.
La pietà è celeste
nelle preghiere.
Dio che è nei cieli predilige
tutto l’azzurro che ha sparso
nel cielo nel mare.
Ma non disdegna i colori accesi
dei tramonti delle albe fulgenti.