IL VELIERO CANNIBALE 23 – NOWHERE, ALABAMA

Bozza automatica 2863

Paul Ernest

 
 
 
 

Malinconie, anacronismi e moralismi del Capitano Peleg

 
 

Moby Dick è il libro che più si avvicina al Libro dei libri. In nessun altro si disputa intorno all’esistenza di Dio, o alle prove della sua inesistenza. In uno l’immensa Arca; nell’altro l’oscuro Pequod, che è di Achab, ma non è Achab, perché il Pequod è il suo proprietario, il quacchero, il dimenticato Peleg, che l’aveva addobbato “come un barbaro imperatore etiopico… Era fatto di trofei. Un veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici”.

Parafrasando le parole usate da uno scrittore per parlare di un altro scrittore, il nostro Capitano Peleg, risorto con un artificio, è un naufrago del passato che il Fato ha proiettato sulle sponde di un altro tempo. A cura di Frescobaldi MacIntyre.

 
 

NOWHERE, ALABAMA

 
 
 

Rischierei il dolore,
e ancora il giogo, e la frusta,
e i giorni che indifferenti
attendono di essere vissuti,
per il fiume azzurro
dei miei anni verdi.
Prima dell’imperscrutabile nero.

 
 
 

Mi chiamo Jared F. Poole. Sono il comandante della Sarah Warren. È l’anno del Signore 1862. Siamo partiti dal porto di San Francisco una mattina di marzo. Pioveva.

C’è chi va per boschi, chi per funghi, a donne, alla guerra; per mare. Noi andiamo per balene.

Il Sarah Warren è un veliero tozzo, ma non privo di una certa eleganza. Abbiamo due polene, per dirne una.

Una rappresenta una donna e l’ha superbamente scolpita in un tronco di hickory un maestro d’ascia svedese di cui non ho più notizie da molto tempo. Mentre ne intagliava i lineamenti del viso, mi disse che pensava a sua moglie, che era morta di vaiolo poco prima che salpassero per l’America. Al momento di essere pagato mi disse che al posto del denaro pattuito avrebbe accettato che la nave fosse ribatezzata con il nome della consorte. Il no che ricevette come risposta lo trovate scritto sulla prua, a chiare lettere.

La seconda polena non è di legno, è di carne e sangue. Si chiama Jonah. A chi gli chiede da dove viene, risponde “da Nessun Posto, Alabama”. Ha superato i cinquanta da un pezzo, ma mi piace pensare che in realtà ne abbia cento. Non era il primo ramponiere negro che mi capitava di vedere; sicuramente il più preciso. Non scende nella lancia ormai da un pezzo, non ha più la forza, né per l’arpione né per il remo. Fa parte dell’attrezzatura di bordo., una vela forse, l’albero maestro azzarderei. Per quanto ne so non scende dalla nave da quando ci è salito la prima volta.

Ogni sera, anche oggi davanti a questo strano e meraviglioso arcobaleno che cavalca il cielo, Jonah arriva all’estremità della prua, quasi sale sul bompresso, esattamente sopra la testa della moglie del mastro d’ascia svedese, e se ne sta lì fino a quando fa buio. Poi scende, va sul ponte, si accovaccia in un angolo vicino al boccaporto di coperta, e ogni volta alla stessa ora, racconta una storia, senza cambiare mai una parola, una virgola, un respiro.

È la nostra invocazione, un sermone tra le onde. Chi può si raduna intorno a lui, per la liturgia, e recita, sottovoce, la preghiera mandata a memoria.

Ci vuole fortuna a trovare iddio in mare.

La palude mi piacque subito.

Il bianco senza fine del campo di cotone dei Van Doren era alle mie spalle; la melma putrida dove affondavo fino ai polpacci, per quanto mi riguardava, era la strada verso la felicità; ogni passo una scommessa.

La notte, e il latrare dei cani che taceva ancora, mi davano la forza necessaria per non cadere.

Per orientarmi lessi le stelle come avevo visto fare a mia nonna ogni notte d’estate prima di rientrare in casa e chiudere gli occhi, e capii di avere abbastanza tempo, e che sulla riva avrei trovato l’uomo del traghetto, che aspettava sempre l’alba prima di abbandonarsi al grande fiume. Non ebbi esitazioni, filavo dritto e veloce come la pallottola di uno Sharp, nessun ostacolo sulla strada, i miei fratelli e mia madre solo un ricordo troppo dolce che una notte di pianto non potesse rendere accettabile.
Quando i miei piedi martoriati toccarono la terra dura, mi fermai la prima volta. Liberai le gambe dalle sanguisughe, pulii una ferita con un lembo della camicia e sorrisi.

Il rumore lontano dell’acqua che scorreva e lambiva i sassi mi fecero da bussola. Mi ricordo che procedevo a passo spedito ma senza affanno, marciavo, con le foglie decomposte a scandire il tempo, come avevo visto fare ai sodati confederati che partivano in un giorno di fiera in cui aveva accompagnato il padrone in paese con il carro per caricare gli attrezzi nuovi.

Ero arrivato quasi al fiume quando sentii una voce, e poi un’altra.

Gli alberi disegnavano un cerchio. Dentro un ragazzo, vestito come me, uguale a me. E tre uomini, con dei bastoni. Prima di ogni colpo sul ragazzo, pronunciavano il suo nome. Non dicevano altro. Si alternavano e colpivano a turno e ogni volta in un punto diverso. Quando se ne furono andati, il ragazzo giaceva riverso per terra, supino, le gambe intrecciate. Mi chinai su di lui, gli presi il viso tra le mani, asciugai il sangue e gli fasciai la testa con quello che rimaneva della mia camicia. Tossì, senza riaprire gli occhi.

Guardai il cielo che stava cambiando colore e pensai che ero ancora in tempo se avessi fatto tutto in fretta.

Ogni sera penso a me che mi carico il ragazzo in spalla e corro a perdifiato. E sento la voce del capo squadra che fa la conta e chiama tutti per nome, uno a uno, e quando chiama il mio rispondo quasi gridando di gioia, perché nemmeno due minuti prima Abigail mi ha detto che il ragazzo se la caverà. E io cammino cantando insieme agli altri, pensando alle due nuove braccia da lavoro che presto ci avrebbero aiutato nella piantagione.

Ci penso ogni sera.

Ma non è andata così. Il ragazzo giace ancora nella radura, con la schiena spezzata, e io sono appena salito sul traghetto, sono partito per un viaggio che mi ha portato sino a qui.