Balthasar Van der Ast, Fiori in vaso con insetti e conchiglie, 1630 circa
Malinconie, anacronismi e moralismi del Capitano Peleg
Moby Dick è il libro che più si avvicina al Libro dei libri. In nessun altro si disputa intorno all’esistenza di Dio, o alle prove della sua inesistenza. In uno l’immensa Arca; nell’altro l’oscuro Pequod, che è di Achab, ma non è Achab, perché il Pequod è il suo proprietario, il quacchero, il dimenticato Peleg, che l’aveva addobbato “come un barbaro imperatore etiopico… Era fatto di trofei. Un veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici”.
Parafrasando le parole usate da uno scrittore per parlare di un altro scrittore, il nostro Capitano Peleg, risorto con un artificio, è un naufrago del passato che il Fato ha proiettato sulle sponde di un altro tempo. A cura di Frescobaldi MacIntyre.
Una voce sottile
Quando una vita sconfina e si perde senza rimedio tra le pieghe del tempo, il trascorrere delle ore si fa prima abitudine, poi esercizio, sino ad assumere le forme ambigue delle ombre, destinate prima o poi a sciogliersi nella luce del giorno. Quelle vite non si allungano; si dilungano piuttosto. Il cuore rallenta, si arresta. Lo stato che ne deriva non è sonno (o sogno) e non è morte; oblio è la parola, tra quelle che conosco. che meglio lo rappresenta.
Quando si ha la ventura di essere scossi da quel torpore e tratti dall’oscurità che faceva da tana o sepolcro – può essere il vento, una mano – il ridestarsi è come rinascere, ma con effetti asimmetrici: il corpo ricorda, la mente, invece, non serba memoria alcuna, se non quelle strettamente legate alle facoltà biologiche.
È in quel momento che i pensieri ricominciano a fluire, stratificarsi, riscrivere una storia. Ricostruirsi partendo dall’inizio è spaventoso; e magnifico, anche.
Chi mi ha ridato vita, mi ha guardato da un lato all’altro e mi ha portato via con sé. Sul mio corpo hanno allargato la piccolissima ferita circolare che mi attraversava da parte a parte, e segnato da questa nuova cicatrice sono entrato in una famiglia di New Bedford, i Coffin. Abitavamo tutti inseme in una casa di legno piccola e spoglia ma dignitosa, riscaldata dal fuoco di un camino e da quello che animava coloro che la occupavano ognuno a suo modo. Accanto alla casa c’era la locanda che i Coffin conducevano come si fa con una barca da pesca, in attesa di qualcosa o qualcuno.
Una sera un ospite della locanda – un uomo giovane e risoluto, dal viso che si apriva in un largo sorriso e gli occhi che tradivano un animo profondo e inquieto, e che si accompagnava a un selvaggio, spaventevole a vedersi ma scolpito nella roccia di un rigore morale fuori dal comune – era ospite per cena a casa dei Coffin. Raramente accadeva che i clienti della locanda varcassero la soglia della casa; erano due balenieri come quasi tutti gli altri, ma qualcosa doveva aver convinto il padrone a fare un’eccezione.
A casa dei Coffin e nella locanda il cibo servito aveva lo stesso nome, ma lo stufato con cui i due balenieri cenarono era diverso e se ne complimentarono; anche il selvaggio, che aveva in realtà modi da principe, smise di i panni della sfinge al secondo cucchiaio.
Prima di commiatarsi e riattraversare la strada per raggiungere la loro camera, di cui per motivi di spazio condividevano il letto, i due balenieri si accesero la pipa insieme al vecchio Coffin e al figlio più grande e stettero in piedi davanti al fuoco.
Anche io ero lì, abbastanza vicino da ascoltare la storia che il ragazzo dagli occhi con vista sull’abisso, stava raccontando quasi sottovoce. L’aveva sentita un paio di mattine prima da un vecchio ramponiere che predicava sul molo.
Era la storia di una conchiglia, rosea e piccola come la mano di un bambino, che si era formata mille e forse altri mille e mille anni prima su un basso fondale dello stesso oceano che di lì a due giorni avrebbero preso con il veliero su cui avevano deciso di imbarcarsi nella foga di lasciarsi la terra dietro le spalle, una strana nave decorata con mandibole di balena e con la polena che raffigurava un albatros trafitto da una freccia (un presagio di sfortuna che risuonava come una beffa, uno sputo in faccia al destino e a dio).
La conchiglia aveva ben presto perso il proprio ospite originario e aveva fatto un passo ogni secolo, trasportata da correnti titaniche ma che sul fondo risultavano impercettibili e da gasteropodi che si alternavano uno all’altro, sino a posarsi sulla spiaggia di quello che un giorno sarebbe stato chiamato New England.
Ci vollero altri due secoli per finire al collo di un giovane della tribù Makah, a fare compagnia alla piuma del suo animale totem, l’aquila, e a un amuleto ricavato da un osso di quello che la sua gente uccideva per vivere, la balena.
Quando durante la caccia, la grande canoa dove il giovane si sistemava in piedi a prua con il rampone si era rovesciata, la conchiglia era ritornata a casa e ci era rimasta un’altra lunga fila di anni, prima di rispuntare nelle sabbie di una spiaggia distante cento miglia dalla prima e che a buon diritto poteva ormai dirsi appartenere al New England, tra le mani di una bambina.
Il narratore di quella serata, di certo non si era soffermato sul collo della secondogentita dei Coffin, che lo aveva servito personalmente a tavola; né poteva sapere che la bambina che aveva raccolto la conchiglia della storia era la figlia dell’artigiano di New Bedford che l’avrebbe forata al centro, appesa a una cordicella di cuoio nero e venduta al pescatore che ci avrebbe pagato, una settimana dopo, una tazza di grog alla locanda di Coffin
E quella che non conoscevo io prima di ascoltare il baleniere sino alla fine, era la storia della mia prima vita, quella che avevo dimenticato, ma non del tutto, e di cui mi trovavo a riannodare i fili mentre pendevo dal collo sottile della figlia di Coffin.