Il sogno di Giuseppe, Stefano Raimondi (Amos Edizioni, 2019).
Rileggere oggi, ottobre 2021, la piccola ma straordinaria collezione di poesie di Stefano Raimondi Il sogno di Giuseppe lascia un non so che di amaro in bocca, quasi il sentore di un’occasione persa. Perché questa esilissima opera, importante, che nella giustificazione dell’autore si dice essere stata redatta tra il 29 settembre e il 13 ottobre 2003. Il suo fortuito ritrovamento risale al 13 luglio 2016; da qui la riscrittura, parla di un isolamento che provoca, genera, una misurazione di sé e del mondo.
E noi, che ormai da mesi siamo usciti dalle nostre case con la paura di ritornarvi chiusi, protetti da mura che più di una volta ci hanno fatto sentire reclusi, cosa abbiamo imparato dal nostro isolamento?
Stefano Raimondi prende la narrazione biblica di Giuseppe, figlio più amato di Giacobbe, per racchiudere, occludere, un uomo che in virtù della sua prigionia (una cisterna, ma anche una vita) utilizza lo strumento del sogno per porsi delle domande, per chiedere l’uomo cos’è, oltre sé stesso.
Il sogno di Giuseppe, questa premonizione da interpretare, è in fondo la domanda sull’umanità dell’uomo, sulla vivibilità della vita. Che in primissima battuta non possiamo non mettere in relazione ai migranti morti in mare (Il sogno di Giuseppe / diventò di pietra: divenne / cisterna, poi casa e fondale. / A fuggire sarebbe riuscito solo / il corpo sottile di sabbia.), nei barconi ma anche stipati illegalmente nei camion. E in seconda battuta sull’orizzonte e la consapevolezza che l’uomo ha.
Perché lo sguardo umano è molto breve. Abbiamo la letteratura, questa capacità di andare oltre noi stessi non solo fisicamente, o a livello di tempo, ma anche a livello di individui. Un’opera letteraria raccoglie una società, non solo un autore. E va oltre il tempo e lo spazio dell’autore sopravvivendogli. Ma l’uomo?
L’uomo vede un orizzonte, ma vede un vuoto. Più ampio è lo sguardo più infossato l’occhio. Ecco quindi che una parete di metallo di fronte diventa specchio del proprio essere che, sulla penna di un poeta come Raimondi, diventa riflesso di una società e di un tempo.
E del tempo dopo. Perché quest’opera è riuscita non solo in quanto metafora dei primi due decenni del duemila, ma in quanto monito di un post-lockdown che ci obbliga a chiederci: e noi, quando avevamo il muro di casa di fronte, che sogno di Giuseppe abbiamo avuto? Cosa ci è rimasto? Cosa abbiamo capito?
Alessandro Canzian
Il sogno di Giuseppe
diventò di pietra: divenne
cisterna, poi casa e fondale.
A fuggire sarebbe riuscito solo
il corpo sottile di sabbia.
Le sue caviglie erano portali
soglie, dove liberare fratelli e padri.
La casa era sempre più vicina al sogno:
sarebbe crollata con il giorno
con il suo ritorno, indietro, nelle stanze.
La cisterna si fece casa, pelle
voragine di ascolti. Entrarci
era sognare, partire.
Ho fatto un sogno solo
aveva poche cose da dirmi
come sono poche le ore
che finiscono vicino alle cantine
e per niente e per poco respiro
stanno a guardia delle loro ombre.
Si resta nel sonno come in un amore, quello
che si tiene vicino per non dimenticarsi
per non lasciare il punto da dove si è partiti
insieme alle sembianze.
E cambiano le cose sparse sopra i tavoli.
Sopra le cisterne passano i mercanti
e i sogni devono essere raccontati
per salvarsi.
Le madri che amano davvero sanno
farci rinascere sempre.
Sentire le corde bagnarsi da qui
è come trovare l’inizio di un silenzio.
Le terre si spostano
dove nessuno ci riconosce più.
Giuseppe sognava così.
Sentiva l’acqua arrivargli dappertutto;
aveva anche lui paura dei fondali
come le cose cadute nelle grate
dei tombini: spariscono
come uno quando è solo.
Anche il mare gridava
e le voci erano schiume.
Ma c’erano le madri tra loro.
Non tutti i sogni sono uguali:
alcuni vengono per non ferire
altri per avvisare
Sono qui e penso a salvarmi.
Qualcuno verrà a togliermi
i polmoni dall’acqua
il legno da sotto le unghie.
Sento ancora le voci
dell’ultimo sogno: abbracciano
le madri intarsiate di luce.
Nessuna parola tiene più
a galla i corpi.
Non vedo nulla da qui eppure
guardo il sentire; le storie disfarsi
dal loro spessore e diventare abbaglio
caldo stupore.
Fa buio prima della cisterna
e il sogno porta risvegli
vicino all’immobilità sottile
del suo deserto, del suo
esilio raccolto in silenzio.
Sono gli abbandoni a restare
più a lungo nei sogni – diceva mio padre –
sono gli insonni a trattenere i loro ricordi.
Da lì le ombre facevano
spazio alle luci, cercavano
gentilezze.
Dalla cisterna non s’intravedevano che loro:
le finestre alte, le più sole.
Non aveva più spazio la notte.
Chiudi l’inquadratura – diceva –
chiudi il boato degli occhi.
La notte è un fuso che trema.
Si contano le stelle a volte, piano
per non ferirsi e la paura canta
sogni trafitti al contrario
in bilico sugli orti.