Il nodo sconfinato – Federico Rossignoli

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Continuano gli speciali di Laboratori Poesia. Presentiamo Il nodo sconfinato di Federico Rossignoli.

 
 
 
 

Il nodo sconfinato

 
 
 
 
Infittisce i nostri corpi il fulmine
li contiene e ripone al giusto posto,
tra i felini e l’uva spina, in limine,
centro delle cose e loro avamposto.
 
Troppo piccoli per bastare al mondo,
troppo per noi stessi, non so che fare
di tutto questo me, nemmeno sondo
cosa sia, ma penso possa amare
 
quanto allontanò la desolazione:
l’aria, l’acqua, il fuoco, la terra bruna,
e la tua persona in competizione
 
con le cose che la vita raduna.
Forse in onore dell’amor cortese
vaghiamo per sconfinate distese.
 
 
 
 
 
 
Vaghiamo per sconfinate distese,
la terra è più gelida che il cielo
alto e muto, e dovunque reti tese
a maglia stretta sistemate a pelo
 
della polvere. Un sottile stridio
di foglie rosse, viverne e aquilegie
-colpa loro se ritroverai un Dio-,
rivela ai nostri piedi le malvagie
 
attese e sin dentro le mura (fino
a lì, e non oltre) d’orto conchiuso
ci conduce, salvi. In questo giardino
 
cammineremo un sentiero inconcluso
diretti agli abissi delle marine.
Sarà meglio non vederne la fine.
 
 
 
 
 
 
Sarà meglio non vederne la fine.
O, dovessi arrivarci, ritirare
fino alle barricate coralline
e di nuovo cercarla. È il fare
 
della schiuma del mare, che scompare,
certo, ma lascia sempre qualche cosa:
sirene a brani, una fase lunare
o bianche conchiglie, di più non osa.
 
Attenta allora a dove metti piede:
vite più profonde fanno naufragio
sulla spiaggia. Nonostante lo sfregio
 
sul volto sanno parlare. Abbi fede
nelle ferite e nelle cose apprese,
non considerare guadagni e spese.
 
 
 
 
 
 
“Non considerare guadagni e spese,
è un consiglio. Considera il bosco:
intreccia farmaci, sguinzaglia estese
radici a bere i quattro umori, il fosco
 
e la chiarità coltivano i rami
nelle mani di Clori. Ti sei perso?
Perché molto hai donato, e assai più terso
hai reso il tuo commiato”. Legnami
 
d’inverno, adesso, bruciano gli aromi
dell’estate, da quando il seme esiste,
-Il culto oltre marcescenze e linfomi. –
 
Il canto, la mano in questo consiste
da quando mi guidi, con voce e cenni,
nel sentiero degli alberi perenni.
 
 
 
 
 
 
Nel sentiero degli alberi perenni
il tempo si ostina a non dare traccia,
come lo scoiattolo a cui piaccia
il silenzio che rimesta gli insonni.
 
Presto al mattino, quando legittimo
sembra ogni desiderio, lo si scorge
sul sedile di granito che sorge
dalle foglie e dalle edere, l’ultimo
 
dei troni ed eredità delle corti
rinate. Ancora sussurrano i liuti,
ancora le erbe domate negli orti
 
non vogliono passare per rifiuti.
Fanno intendere d’essersi destate
le vegete macerie calpestate.
 
 
 
 
 
 
Le vegete macerie calpestate
crepitano fitte allo stesso modo
che se fossero betulle appiccate
da saetta. Il tempo, l’anello, il nodo
 
sono disciolti; eppure ancora esita
a muoversi qualcosa, quel qualunque
cosa, indicibile e chiara, che tacque
inascoltata a lungo. Ora crescita
 
nuova reclama su tutti quei passi
che hanno fatto da esca, di daini, cervi,
di vipere, di scoiattoli rossi,
 
di noi, che l’un dell’altra saldi i nervi
teniamo, senza cedere agli inganni,
le maschere innanzi al volto degli anni.
 
 
 
 
 
 
Le maschere innanzi al volto degli anni
sono d’oro, e serene nell’aspetto;
hanno il potere di stare al cospetto
di chiari specchi senza averne danni.
 
Le ha disposte il bel gesto, la splendida
recitazione ritmata a teatro
dell’incendio di Troia – carbone atro
rimane a terra e la fronte madida
 
di fuoco. La vita è più semplice
dopo il racconto. E chi già ne conosce
il finale, sa che nessun giudice
 
sarà, ma luce; come suggerisce
il tuo sguardo, le stelle celate
dalle tue mani andranno svelate
 
 
 
 
 
 
Dalle tue mani andranno svelate
folate contrarie; fredde correnti
spazzano il cielo, con soffi potenti
sciolgono le antiche coordinate
 
che millenni d’arroganza avevano
arrestato. Astri immobili ed erranti
per orientarsi, in guerra o nei canti
d’amore, e pene che ne valevano…
 
Il tuo corpo celeste e profondo,
uno scoppio e intere ere ci ho messo
per osare il tuo gesto che confondo
 
ancora con il cosmo, con lo stesso
cuore che avvera le cose fasulle,
le dita a manomettere le stelle.
 
 
 
 
 
 
Le dita a manomettere le stelle,
e sotto il cielo tenti un atto nuovo,
da tempo chiuso in potenza nell’uovo
vergine. Disponi le particelle
 
di cigno per distendere il vertice,
il cancello dell’empireo indossi
e non ho mai calcato alati passi
oltre te. Così il bianco e complice
 
cigno canta e dissemina le spore
del tuo fare al fin del viver mio,
sino al giorno nel quale il sole muore
 
e dell’ordine non sarà che oblio:
fino a lì saprà il tuo restare
educare le rotte, orizzontare.
 
 
 
 
 
 
Educare le rotte, orizzontare
l’acqua verso il portale della chiesa,
sopra l’oro e la madreperla presa
nel tempo in cui furto era preghiera.
 
Le vergini marciscono nel fondo
dei naufragi, ognuna portava in grembo
il migliore e più probabile mondo;
ora avvolte in un incorrotto limbo
 
vuoto di respiri, non di sussurri.
Lì scontano la fuga dalla notte,
pagano i fragili petali azzurri
 
che custodivano gli occhi. Le inghiotte
l’essere tuo viva, e salva quelle
sul pelo del mare, e sotto la pelle.
 
 
 
 
 
 
Sul pelo del mare, e sotto la pelle,
s’accalcano bocche rosse di foglie,
fragili e veridiche come spoglie
nel mausoleo. Sulle mattonelle
 
velate di muschio sono svaniti
i tuoi passi, il vento li ha rapiti
e sparsi ad ogni sentiero, ogni croce
dove la strada ha termine, e una voce
 
farà quello che il piede non può fare:
frugare campi di erbe invincibili,
corolle angeliche da dove estrai
 
tutti i suoni e le parole udibili
alla luce del giorno, e quanto potrai
nel buio ribollente ritrovare.
 
 
 
 
 
 
Nel buio ribollente ritrovare,
ché sempre gli fu caro, il tuo volto.
Ma troppo netta stagli per pensare
che una parola te lo avesse tolto,
 
o ancora un gesto. Vivi in profondità,
mi obblighi a chiamarti, a chiederti luce,
‘ché sei lontana da quella che scuce
gli occhi, ma prossima a quella verità
 
dietro al tuo animo inselvatichito,
che tarda a fidarsi delle persone,
muove nella notte, ha pelo pulito
 
e raggiante, e pretende professione
di fede. Spandi, dal tuo valore,
lo stesso sguardo e simile bagliore.
 
 
 
 
 
 
Lo stesso sguardo e simile bagliore
si perde correndo a brani tra i rami
ustionati d’inverno. Panorami
prestati all’insonnia crescono il fiore
 
che giura dopo la boscaglia, e tace
come chi nulla nasconde o possiede.
Nessuno saprà essere capace
di negare la pace dove siede
 
lo stame destinato alla fornace.
Hai la bellezza del fiore, ma il piede
per fuggire dal fuoco solo tu lo hai,
 
e finché avrai sangue non sarà mai
smarrito il tuo volto, o usato errore.
Molto più di un muscolo è il cuore.
 
 
 
 
 
 
Molto più di un muscolo è il cuore,
più del ritmo mormorato di terra
sepolta dalla brina, dalla serra
sterile della stagione. L’ odore
 
di febbraio graffia, con unghie tolte
al sole, il giardino; grasse primule
ingannano il cielo, non le tremule
bocche sporche di fame delle molte
 
bestie risvegliate. Sella il maltempo
e conducilo dove più arida
ho la vita, rivelati nel lampo
 
della carne, della fuga morbida.
Fallo ora: ‘ché sempre, giunti al culmine,
infittisce i nostri corpi il fulmine.
 
 
 
 
 
 

Magistrale

 
 
Infittisce i nostri corpi il fulmine,
vaghiamo per sconfinate distese.
Sarà meglio non vederne la fine,
non considerare guadagni e spese
 
nel sentiero fra gli alberi perenni,
le vegete macerie calpestate.
Le maschere innanzi al volto degli anni
dalle tue mani andranno svelate;
 
le dita a manomettere le stelle,
educare le rotte, orizzontare
sul pelo del mare e sotto la pelle,
 
nel buio ribollente ritrovare
lo stesso sguardo e simile bagliore.
Molto più di un muscolo è il cuore.