IL VELIERO CANNIBALE 2 – DIARIO DI JOHN SCOTT

IL DIARIO DI JOHN SCOTT

Mazeppa, Theodore Gericault, 1823
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Malinconie, anacronismi e moralismi del Capitano Peleg

 

Moby Dick è il libro che più si avvicina al Libro dei libri. In nessun altro si disputa intorno all’esistenza di Dio, o alle prove della sua inesistenza. In uno l’immensa Arca; nell’altro l’oscuro Pequod, che è di Achab, ma non è Achab, perché il Pequod è il suo proprietario, il quacchero, il dimenticato Peleg, che l’aveva addobbato “come un barbaro imperatore etiopico… Era fatto di trofei. Un veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici”.

Parafrasando le parole usate da uno scrittore per parlare di un altro scrittore, il nostro Capitano Peleg, risorto con un artificio, è un naufrago del passato che il Fato ha proiettato sulle sponde di un altro tempo. A cura di Frescobaldi MacIntyre.

 
 


 
 

IL DIARIO DI JOHN SCOTT

 

Nothing of him that doth fade
but doth a sea change
into something rich and strange

(The Tempest, Ariel´s song)

 
 

Per chi pretendeva che a 25 anni il meglio della vita fosse già alle spalle, e che la sua zoppia fosse la promessa di una vecchiaia intollerabile, crepare a 36 compiuti deve essere stato accettabile. Gli avrà invece procurato un’intensa malinconia, morire sì nel posto giusto – la Grecia ottomana, una terra oppressa in attesa di redenzione, una fornace accesa – ma lontano dai luoghi dove la rivolta sarebbe stata decisa e i sogni del popolo esauditi o dissolti; non in battaglia, trafitto dalla pallottola di un fucile giannizzero o schiacciato dal suo cavallo abbattuto, ma in un letto, divorato da una febbre reumatica.

Accanto al suo corpo esanime le sue ultime pagine, l’incompiuto canto XVII del Don Juan, che non risuonavano dello scalpitio sordo di cavalli al galoppo, dei sussurri di una congiura, della musica “dell’arpa divina”, delle voci dell’amore e della morte – la morte parla, non dubitatene. A Byron erano stati concessi solo il tempo e lo spazio per scrivere un’arringa in difesa di se stesso e di Don Giovanni; e l’aver evocato Lutero, Locke e Galileo a testimoniare in suo favore, non era bastato a rendere quegli ultimi versi immortali, a farne il racconto irripetibile di qualcosa.

Così, il testamento di Byron scrittore – fu molte cose, anche questo – è custodito altrove. Nello Ionio, più precisamente, a una manciata di miglia dall’isola di Cefalonia.

 

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Convince tutti a imbarcarsi sull’Hercules la sera prima della partenza, con inutile anticipo, per trascorrere la notte a bordo; non è più romantico?, argomenta.

Il brigantino è un serraglio che prevede oltre a lord Byron e al comandante capitano John Scott: il giovane conte Gamba; l’inseparabile sodale Edward John Trelawny; un medico, il dottor Francesco Bruno d’Alessandria; l’equipaggio; 8 servi; due piccoli cannoni asportati dal Bolivar, che è alla fonda non lontano da lì; cinque cavalli. A Livorno, prima tappa della crociera, li attende Hamilton Brown per unirsi a loro.

Il poeta e il comandante approfittano dell’insonnia che spesso precede i lunghi viaggi, per aggiungere al contratto di noleggio del veliero una postilla. Scott pretende, più probabilmente supplica, un riconoscimento personale: che la quotidiana redazione del giornale di bordo sia un’incombenza di Byron, da eseguirsi secondo il suo stile.

L’impegno è ben accetto, uno svago in più durante un lungo viaggio, un antidoto alla noia, compagna sempre frequente e sgradita del barone di Marylebone. Ciononostante, Byron pone delle condizioni, perché quella notte per lui il gioco è una cosa seria, più dell’amore, della vita e della stessa letteratura: per l’intera durata del viaggio, sarà lui l’unico depositario del diario di bordo; in più, spettandogli una mansione propria del comandante, quest’ultimo lo sostituirà en totalité nella cura quotidiana e maniacale del suo destriero adorato, un frisone puro di tre anni, un morello dal manto di un nero lucente, a cui per un destino che in quel preciso istante si rivela beffardo, era stato dato il nome di Mazeppa. Infine, non avrebbe rinunziato del tutto a firmare il suo plagio, trascrivendo un piccolo indizio a margine dell’ultima pagina, il quarto decasillabo del primo canto del Don Juan: “the age discovers he is not the true one”.

Al vago timore che i cavalli gli hanno sempre ispirato e all’ipocondria che la consegna del diario di bordo equivalga alla cessione del comando della nave, fa da contrappeso il pensiero che possederà l’unica copia dell’ultima opera della mente più geniale dopo quella di John Hadley; è poi il nome del frisone a fargli intravedere un destino segnato: una copia copia personale del poema byroniano Mazeppa, già quasi consunta per le innumerevoli riletture, poggia sulla mensola accanto alla sua cuccetta, in cabina . Siamo d’accordo, conclude.

Il conte Gamba, anch’egli immancabilmente desto, funge da notaio e con l’alba ormai alle porte, le tre firme con la data 16 luglio 1823 vengono apposte sul frontespizio del poema, appena sotto i dati dell’editore: LONDON – John Murray, Albermale Street – 1819.

La traversata sembra iniziare sotto una cattiva stella: un fortunale li costringe a tornare in porto a Genova, e l’incipit del giornale di bordo è giocoforza folgorante. Byron riesce a mescolare con lirismo e raro equilibrio natura, superstizione e scienza; il terrore di essere stato alfine raggiunto dalla maledizione del sangue (la malasorte che pareva perseguitare in mare il suo nonno paterno, Jack “Maltempo”) o dalla strana vendetta dell’amato Shelley (naufragato su una goletta dai due nomi, Don Juan e Ariel, che rimandavano entrambi a tempeste e a Byron, che invece aveva attraversato indenne le stesse acque poco tempo prima a nuoto), viene temperato dalla provvidenza divina e ridotto alla ragione dalla meteorologia).

Le pagine che descrivono i giorni successivi alla nuova partenza, pur meno tumultuose, danno vita a un memorabile diario di viaggio, il risultato dell’interpolazione dei fatti inerenti alla navigazione e alla rotta, con parafrasi da svariati poemi (Alfieri, Goethe, Shelley, Foscolo, Byron stesso); e con pensieri, sogni mattutini, erotismo, filosofie.

Al diario, Byron, incapace di consacrarvi le mattine, in cui si sveglia sempre a tarda ora e di pessimo umore, dedica i tempi morti (in genere la sera) che non lo vedono impegnato freneticamente in altre attività, soprattutto con Trelawny, con cui boxa, nuota, tira di scherma. Non manca ogni notte di far visita alla stiva adattata a scuderia, per controllare i cavalli e accarezzare e parlare al suo.

L’incontro tra il comandante e Mazeppa si rivela, al contrario, meno fecondo, e lascia i due reciprocamente insoddisfatti. Scott ogni giorno si occupa per lungo tempo del morello, che mal lo sopporta, seguendo le istruzioni del poeta alla lettera, ma senza amore. Deve strigliarlo a dovere non meno di tre volte al dì, e per mezzora a seduta; liberare la stiva o il ponte (dove Mazeppa viene fatto passeggiare ogni volta che il mare lo permette) dal suo letame; accettarne di buon grado i calci che più di una volta quasi lo azzoppano.

In quei momenti il comando del brigantino è delegato al secondo ufficiale, Arriaga, un navarrino di Tudela, veterano di Trafalgar, che dopo ogni ordine bestemmia in basco.

Il 4 agosto, finalmente in vista di Cefalonia, sul ponte si ritrovano tutti o quasi. L’aria è calda, gli animi puri, il cielo terso. Senza dubbio sono inglese, ma è pur vero che il mio cuore è ateniese, dice a mezza voce Byron al conte Gamba, che è appoggiato a uno dei cannoncini del Bolivar. I due e Trelawny hanno in testa gli elmi che Byron ha fatto forgiare da un artigiano genovese apposta per l’occasione, il suo ha una piuma azzurra per cimiero. Giungono, distinti, dei nitriti dalla stiva. Arriaga, grida incomprensibilmente qualcosa a un marinaio.

La poesia ha lasciato il campo al teatro.

Byron è addossato alla murata, ha con sé il diario di bordo; lo stringe al petto quando John Scott si avvicina. Il comandante, davanti a lui, sorride, e tende la mano. Byron, tenta di ricapitolare, a mente, i resoconti della traversata, contenuti nel grande quaderno nero, che all’improvviso gli pare qualcosa di irrinunziabile. Invano. Solo frammenti, scampoli; il ritmo di un paio di versi, un aggettivo che lo aveva colto di sorpresa, una parafrasi di Goethe che gli era sembrata notevole. Nient’altro, troppo poco per illudersi di poterli ritrascrivere. La mano di Scott si tende leggermente verso di lui; la sua, quella che stringe il diario, fuori bordo. Il giornale vola via, si frange sulla chiglia, si perde nella schiuma della scia, il mare lo inghiotte.

John Scott fa due, tre passi indietro, poi si dirige a poppa, muto.

Due ore dopo l’Hercules entra nel porto di Argostoli.

Byron, Hamilton Brown, Trelawny, il dott. Bruno, il giovane Gamba che ha ancora sulla testa l’elmo, sono riuniti sul molo. I servi stanno curando il trasbordo dei cavalli attraverso una lunga e larga passerella. Mazeppa è l’ultimo a scendere e di lui si preoccupa direttamente John Scott, perché il contratto è ancora valido e si risolverà, per quanto lo riguarda, solo arrivati a terra.

Il capitano, sul ponticello, canticchia Jolly Miller, I care for nobody, no, not I, If nobody cares for me. Sulla banchina, prima di lasciare le redini a Byron che gli si è fatto incontro, estrae dalla cintura una pistola e spara al morello in testa, a bruciapelo.

Mazeppa stramazza sulla pietra con un lamento acuto, indescrivibile a parole. E Lord Byron, in quell’istante, pensa a quanto sarebbe stato bello e giusto morire per quella terra schiacciato sotto il peso del suo cavallo.

 

Frescobaldi MacIntyre