Il condominio S.I.M., Alessandro Canzian (Stampa2009, 2020, prefazione di Maurizio Cucchi).
Alessandro Canzian ci offre questo suo ultimo lavoro, oggetto di una riflessione profonda e di continue riscritture che hanno coperto diversi anni per portare al frutto definitivo che possiamo oggi leggere, avendo a stella polare sempre un riferimento certo, quello del titolo, riferito a un luogo ben preciso, quel condominio degli anni ’70 a Maniago diventato tale, obtorto collo, a seguito di una “variazione della destinazione d’uso”, che lo vede da hotel trasformato in condominio non appena capita la scarsa redditività dell’operazione inizialmente intrapresa. Insomma, un luogo nato da subito sotto una stella sbagliata, pronto a diventare ricettacolo di storie altrettanto sbagliate (come quelle di ognuno, forse). E il condominio, infatti, con la sua presenza ingombrante e anonima, sempre a metà fra luogo ben determinato e non-luogo in cui si concentra una moltitudine di volti che non riescono a trovarvi una vera casa, è dunque il protagonista di un avvicendarsi di vite comuni (bene riassunte dal verso: “un sorriso alla varechina”), eppure eccezionali nella loro unicità tutta drammatica e contraddittoria, su cui si concentra l’occhio discreto eppure estremamente sensibile e intuitivo dell’autore che le ritrae senza filtri, fedele alla scuola di un realismo estremo, tutto concentrato sul dato, in una resa per fotogrammi sovrapposti che sbalzano dal foglio con la loro semplicità evidente, tuttavia capace di sorprendere, come raramente accade, il lettore.
A colpire fin da subito nella lettura di questa nuova raccolta di Alessandro Canzian è l’immediatezza del dettato, lo stile asciutto e narrativo che è funzionale a rappresentare le vite di un’umanità ordinaria, prosaica verrebbe da dire, ritratta nella nudità della sua esistenza, le abitudini e le difficoltà con cui si deve confrontare: è una poesia che rinuncia a qualunque tentazione dotta e intellettualistica e sceglie invece la strada di una comunicazione diretta e esplicita, senza però mai apparire affabulatoria e compiacente, anzi ponendosi con una certa crudezza che è in definitiva propria della vita vera, che è impossibile organizzare secondo piani preordinati, ma che si afferma suo malgrado seguendo un disegno a cui spesso è necessario adeguarsi. L’articolazione poematica del lavoro, come sottolineato nella prefazione da Maurizio Cucchi, è auto-evidente e rappresenta uno dei punti di forza del lavoro che assume la forma del romanzo in versi, pur rinunciando a una troppo ovvia sequenzialità o diacronia narrativa, favorendo invece un’esposizione per episodi autonomi, non esattamente frammenti ma più propriamente tranche-de-vie: al lettore viene affidato il compito di tirare le somme, abbozzare un disegno in cui si circostanzi il senso di queste vite, un messaggio che possa diventare tesoro per la propria, di vita. Ecco allora la pratica coerente di uno stile, elemento essenziale per la riuscita e l’auto-tenuta di ogni dizione poetica: versificazione breve e molto concisa, poesie anch’esse di pochissimi versi, totale assenza di paratassi, periodare secco e a tratti lapidario, uso parco delle figure retoriche, limpidezza del linguaggio in un registro piano che non cede mai al letterario o al magniloquente, aggettivazione minima e chirurgica in funzione del dettaglio che si vuole rappresentare, mai nessuna tentazione pindarica per “l’effetto speciale”. L’altro punto di forza della scrittura di Canzian sta proprio qui: saper instaurare quel processo di immedesimazione, di rispecchiamento mimetico fra il lettore e i protagonisti delle sue storie, così che la poesia non resti materia astratta, ma materia viva che si intride con l’esperienza, con l’esistenza di ciascuno e quindi incide sulla sua interiorità, lo spinge alla riflessione e, eventualmente, al cambiamento, al sovvertimento necessario delle prospettive date per assodate.
Sarebbe infatti un gravissimo errore ritenere queste brevi poesie come dei bozzetti o, peggio, dei cammei riferiti a esistenze come tante, fermandosi al puro piano denotativo, sospettando che si tratti di una costruzione per compiacere il lettore e attirarne l’attenzione. Nulla di più diverso, invece. Il libro ha una sua godibilità di lettura, certo, ma questo non è un male in poesia; soprattutto per una poesia che cerca il colloquio, l’interazione con il lettore all’insegna della chiarezza (o l’onestà sabiana se si preferisce). Questo libro, anzi, potrebbe essere il classico esempio di libro di poesia a cui può avvicinarsi anche chi la poesia la diserta da anni, perché Canzian non crea steccati, cerca di tendere una mano al lettore, si apre al mondo, e all’altro. Dove questa poesia riesce a fare un passo oltre è nella sua capacità di introdurre degli improvvisi scarti di pensiero o di situazione che, generalmente posti in corrispondenza della chiusa, sovvertono la logica lineare del racconto in versi e sferrano quel decisivo “pugno nello stomaco” che sintetizza il quadro, lo porta a compimento secondo la logica di un superamento (aufhebung) dialettico: da un lato i dettagli specifici della storie vengono rimossi, per così dire archiviati nella loro evidenza, dall’altro vengono elevati e rimodulati per offrire quel messaggio di universalità che, in sostanza, è l’aspirazione di ogni poesia civile, a misura d’uomo quindi, nel senso più ampio del termine. Si considerino queste chiuse gnomiche, ad esempio, che bene rappresentano questa modalità espressiva dell’autore: “ Non si può essere più soli / di quando non si è soli”, “Non siamo fatti per restare”, “[…] Non sapeva / che ogni passo è una caduta”, “[…] Una / chiusura non è mai chiusura / senza una porta a cui bussare”, “[…] Anche il vuoto / dice la forma che ha lasciato”, “Il tempo che ci è dato / non coincide con la vita”, e molte altre ancora. Questa sentenziosità deve la sua efficacia al fatto che rinuncia a essere dotta o astratta proprio perché riferita al vissuto di Olga, Carlo, Alina, Alberto e di tutti gli altri, e quindi saldamente radicata alla terra, materica nel suo congegno autentico, come in questo caso, in cui il verso finale suggella un knock-out senza appello:
Alberto non parla mai
di Monica, la moglie. Due
figli e venticinque stagioni
a dormire assieme, gli stessi
odori, gli stessi vestiti
nella stessa lavatrice.
Poi un cancro, a pulire tutto.
È un libro da leggere e da rileggere quest’ultimo di Canzian, meglio se tutto d’un fiato come la sua brevità consente per introiettarne tutto il suo mondo senza soluzione di continuità, un libro capace di aggiungere senso a ogni sua nuova frequentazione, come ci si aspetta da un’opera che vale, che aspira a durare oltre quella volatilità intrinseca, oltre quella obsolescenza rapida (purtroppo applicabile anche a molte pubblicazioni di poesia) che il nostro tempo sembra volerci imporre. Insomma, un libro a cui volere bene, sincero e ricco di umanità, scritto per ciascuno di noi, “per ricordare cos’è l’amore” o “il motivo del suo dolore”.
Fabrizio Bregoli
Olga la mattina raccoglie
dal pavimento le vespe
che cadono spezzate. Apre
svogliata le tende.
A volte fa l’amore urlando
come chi non si ama.
O un lento abbaiare di cani.
Carlo è il ragazzo della porta
accanto. Vive solo. Grida
a volte di notte perché
tutto ciò che è trattenuto
alla fine esplode, butta
le immondizie la sera, come
la vita, una volta alla settimana.
È che mi sono innamorato
d’una ragazza scura
come una sottrazione.
Dio, se esiste, a questo
ci ha condannato.
Ad amare la privazione
per un goccio di saliva.
Anna ha messo sul balcone
due vasi senza fiori. Li
ha messi in fila contro
il muro, come rappresaglia.
Anche il vuoto
dice la forma che ha lasciato.
Silvio ha vissuto cinque anni
in Condominio prima di cadere
dalla scala antincendio. Aveva
scordato le chiavi e pensato
bastasse saltare per esserne
salvati. Non sapeva
che ogni passo è una caduta.
Alberto ha due figli
ma solo uno va a trovarlo.
Perché passare dal suo uscio
significa perdonare i suoi errori
e comprendere che un uomo
può chiedere scusa
senza mai riuscire a farlo.