Il centro del mondo – Domenico Cipriano

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Devo ammettere di aver compiuto un errore molto grossolano approcciandomi a questo ottimo, ottimo, ottimo libro di Domenico Cipriano. Amico di lunga data per motivi letterari, quando ho cominciato a sfogliarne le pagine ho avuto l’ingenuità di cercare quale tipo di giudizio avesse Domenico del mondo che descrive. È stato alla fine del libro (Il centro del mondo, Transeuropa 2014) che mi sono sentito, appunto, ingenuo. Perchè in quest’opera l’autore non porta in alcun modo giudizi, né a me pare si sforzi di trovare o creare una relazione. Domenico è uno di quegli autori che si trovano nel mondo, esistono e non vi entrano in conflitto non tanto per assenza di motivi quanto per una predisposizione caratteriale e artistica alla pace. Pace che non necessariamente è serenità, né accettazione nel momento in cui questo termine acquisisce il significato di mandar giù la pillola amara. Pace che si sintetizza nella formula io esisto qui.

Tale predisposizione dell’animo è chiaro porta però un sacco di altre problematiche. La consapevolezza dell’essere nel mondo apre a un qualcosa che non è mondo, ma io. Ci si domanda allora (come il nostro autore) in quale modo si è nel mondo, qual è la nostra posizione intendendo con questo anche quella misura della distanza che non è un’alienazione quanto uno spaesamento, un non avere dei punti di riferimento.

Ma Il centro del mondo suggerisce fin dal titolo la soluzione al problema proposto. E indiscutibilmente questo libro sigla a tutti gli effetti quali sono i punti fermi della vita di un uomo, quel sistema tolemaico del cuore dove si scoprono man mano la figlia, la madre, la moglie, la propria terra. E in virtù di questi punti fermi si può arrivare a misurare il grado di spaesamento e di stupore che si ha nel trovarsi a vivere nel mondo. Un mondo al centro di tutto che ha nel suo centro il poeta stesso. Non per una sua pretesa arroganza di importanza quanto per una sua gentile consapevolezza di esistere sempre più maturata proprio dagli affetti.

Maturità umana e stilistica molto ben definita nella postazione di Maurizio Cucchi che arriva a suggerire (molto condivisibilmente) anche il termine saggezza:

È questo un libro di maturità evidente, e potremmo arrischiarci anche a dire di saggia maturità. Lo si vede nella pacatezza – sia pure sempre venata, increspata di inquietudine – del tono e degli accenti, nel denso procedere di Cipriano in un percorso di lenta meditazione lirica, capace di cogliere con aperta intelligenza il senso degli opposti, la loro inevitabile compresenza. “Siamo miniere da scavare”, dice in un suo verso, e nello scavo procede regolarmente, con sobria umiltà tenace, e non tanto in uno scavo di se stesso o del proprio essere, per nostra fortuna, quanto, più generosamente, nel senso sempre nuovo, variegato e sorprendente (all’occhio di chi sa ben vedere, oltre la superficie, s’intende) del mondo. Un mondo dove il soggetto – tradotto in io lirico – ben conscio della sua poca o pochissima umana consistenza, e dunque della sua precarietà strutturale, non può che sentirsi al centro, nella perfetta consapevolezza di quanto ciò sia in fin dei conti illusorio, visto che, dice Cipriano, “moriamo pezzo dopo pezzo mutando”. Ma visto anche che il mondo esiste solo se a percepirne la presenza ci sono un occhio e una mente che possano certificarlo.
 
 
 
 
 
 
Due colmi pezzi di mondo
assopiti si guardano, stretti
alle radici. Il tavolo di abete
regge il volubile pensiero
nel bicchiere svuotato.
Strade e rotte interrotte
sui cardini della cartina
acqua inonda i riccioli
legati alla terra. Il suono
dentro consuma i profumi
cullati sul fondo sedentario
del bicchiere. Il sapere
che urla dalla voragine
produce vertigini, rende
il nostro vivere vergine.

 
 
 
 
 
Nella ricerca giornaliera
dei passi reclusi dalla mente
ci ricompattiamo alla vita,
alle ferita della nascita appena
completata. Quel sofferto
nutrimento: lo sgomento riposto
per la felicità di essere al centro
del mondo ancora sconosciuto,
o la conquista del ruolo cercato
tra le cose rovistate e forse mai trovato.
 
 
 
 
 
Nella nostra casa sono cresciuti
i ricordi, i discorsi di gesti consueti
che ora non possiamo vedere.
Commentiamo al telefono sprazzi
di giornate incolori, senza dettagli:
quasi scompare la vita all’assenza.
Ma le carezze erano l’infanzia
e il nostro vivere sapendoci vivi
fingiamo ci basti.
 
 
 
 
Ci siamo abituati a non telefonarci spesso
a perdere le tracce del percorso
e nell’afa della festa
ritrovarci appena di sprovvista.
Non credo che dai giorni confusi
possiamo cogliere di noi
la stessa solitudine, quel vizio antico
di sopravvivere di passi quotidiani
tra i profumi che lasciava la cucina vuota
in quella pace di luce in cui la vedo.
 
 
 
 
 
Oggi mia figlia sta scoprendo
le mani, non ha memoria
(o non dovrebbe) e le chiude
per difesa. La nostra epoca
è racchiusa in quel gesto
e lei l’osserva come per capire
la distanza dalle cose.
 
 
 
 
 
Potrebbero esistere eterne
col fascino consumato del tempo
le luci arancioni sulle strade,
silenziose candele artificiali
che resistono all’alba.
Le guardo intenerito
ogni sera, quasi attendessi
una parola, in un sussurro
la rivelazione della notte.
 
 
 
 
Oggi assaporiamo il sole
tra giri di armonica e una tettoia da ricostruire
sulla casa che ondeggia ai bordi del fiume
tra i numerosi volti degli insetti
e le specie di pesci d’acqua dolce.
È come intrufolarsi nel sogno di qualcuno
che si conosce appena, liberarlo dagli incubi più profondi
e coglierne solo immagini salutari.
Un viaggio dentro il sogno che ci resta
da compiere ogni giorno
fino a che la disperazione non si piega
lasciandoci un segno del perdono.
 
 
 
 
 
Per ogni giorno di disperazione ricambiamo
con un brindisi alla memoria
perché ognuno è la prova della vita inimitabile,
ognuno rinnega il passato prima di colarci dentro.
Questa ciclica visione degli eventi
non torna mai veramente indietro
e siamo altro a ogni legaccio dell’esistenza
in ogni stanza dove anneghiamo la disperazione
o rivalutiamo la speranza. Un nuovo mondo,
una nuova esistenza per ogni parola pronunciata,
anche se riversiamo simili le croci nei cimiteri
e parliamo simili discorsi,
non restano i morsi non consumati, i volti dimenticati.
 
 
 
 
 
Sono restato seduto dietro una panchina per anni
il cielo è rosso vermiglio e ricordo la tua pelle liscia
quando mi scorre il latte sulle guance.
La notte è un piedistallo e restiamo immobili solo io e te
con gli occhi che sono camaleonti
sotto la luce dei lampioni. Il verde condiziona il giorno
schiarendo le tonalità del cielo
ora che tutto è disteso e senza confini
non si vedono più le staccionate
e il buio serve solo a consolare.
Voglio consegnarmi alle distese della terra fertile
lontano dal mare che paradossalmente
è sterile ed esplora. Qui nulla ti riconosce e inganna
c’è un profumo di uva secca e muschio
una finestra per il sole, senza un confine netto
tra vivere e sperare.