I miei occhi già coperti di fiori – Giorgio Galli

 
 
Aladino
 
Angelo mio, col tuo sorriso, che tenere
canzoni agli occhi fa sognare,
con la tua voce che brocche riversa
colme di un balsamo caldo ed antico
mi domandi qual è il mio desiderio
più grande, e non sai la verità,
che su quest’animo un denso crepuscolo
da anni ha steso il suo manto. Sono come
l’avventuriero delle Mille e una notte,
un Aladino cresciuto ai fumi di provincia, che al Genio
di una lanterna di latta ha già espresso
tre desideri sbagliati. Adesso li ho finiti
e nelle ceneri del mio crepuscolo
mi aggiro, affascinato ed arido,
cercando di renderlo più bello.
 
 
 
 
 
 
Ascensione
 
E così procediamo
sempre più in alto
fino al punto da cui
non si sente più niente
 
 
 
 
 
 
Farewell
 
La sera durerà ancora.
Allegrezza lungo le strade
e desolazione nel cuore.
Nemmeno l’arabesco di un buon vino.
Dove sei, amica cara?
Avvicinandoti troppo ti ho persa.
Ottobre sta per finire
ma l’autunno durerà ancora.
Dov’è finita mia madre?
È rimasta sul fondo della sera.
Mi fisseranno gli occhi della morte
ma la vita durerà ancora.
Non fissare i miei occhi, mia amica
i miei occhi già coperti di fiori
va’ per la tua strada piena d’ortiche
e lascia che l’amore duri ancora.
 
(Giorgio Galli, Canzonacce, Delta 3 Edizioni, 2021)
 
 
 
 

Nei versi di Giorgio Galli si avverte un particolare struggimento, leggero ma pungente, privo di pietismi spettacolari o eccessi scenici; è quello della riscoperta di un sentire innocente dopo aver perduto ogni speranza, ogni prospettiva e desiderio; è la possibilità di accogliere in modo “pulito” l’esperienza e l’altro dopo avere esperito uno svuotamento di senso e di sentimento assoluti, senza per questo volerlo “guastare”, apprezzandone davvero il valore al punto da saperne fare a meno.

L’intuizione di questo status di deprivazione, spossessamento e disincanto è quasi confessato nel secondo dei testi qui selezionati, dove l’ascensione viene ricollegata in modo direttamente proporzionale a un sentire sempre più affievolito, finché allo zenith dell’ascesa si arriva a perdere ogni percezione (“fino al punto da cui / non si sente più niente”), a un’imperturbabilità che sembra, piuttosto che una condizione di pace serena, un annientamento raggiunto con faticosa disciplina – molti sono i parallelismi che si potrebbero suggerire, ma voglio ricordare il Fortini de “L’inverno” (“Le mie voglie, più sterili che belle, / Volano via. … Dorma in pace la notte del mio inverno”).

Eppure la tenerezza accogliente che consente di apprezzare il “tuo sorriso, che tenere / canzoni agli occhi fa sognare, / con la tua voce che brocche riversa / colme di un balsamo caldo ed antico” è tutto meno che scollata dalla percezione del mondo, come se la condizione di svuotamento abbia consentito davvero di dimenticarsi, per concentrarsi pienamente sull’altro da sé, senza volersene appropriare: è vero, l’io lirico ribadisce che sul proprio animo “un denso crepuscolo / da anni ha steso il suo manto”, come in “un Aladino … che al Genio / di una lanterna di latta ha già espresso / tre desideri sbagliati”. Eppure è proprio l’avere esaurito i desideri, letteralmente, al di là del significato del mito delle Mille e una notte, che permette di apprezzare ciò che può accadere senza alcuna aspettativa, l’ “Angelo” in grado di spingere al tentativo di rendere migliori “le ceneri del mio crepuscolo” – in grado, in primo luogo, di farne intravedere anche solo una possibilità di superamento e riparazione, possibilità che un completo disincanto troverebbe inverosimile.

Il terzo testo continua a giocare sul dualismo tra “allegrezza lungo le strade” e “desolazione nel cuore”, tra la perdita della persona cara (“Dove sei, amica cara?”) e quasi il pentimento di aver ceduto allo slancio del desiderio (“Avvicinandoti troppo ti ho persa”); ma “la sera durerà ancora”, “l’autunno durerà ancora”: il dettato rifugge la stasi e la morte che porta con sé, indugiando sul dinamismo, nonostante le tentazioni di dissolvenza (“Ottobre sta per finire … Mi fisseranno gli occhi della morte”), perché “la vita durerà ancora”, nonostante costringa a testimoniarne la provvisorietà, la fragilità.

E negli ultimi versi questi sentimenti opposti sembrano fondersi in un riuscito cortocircuito di senso, nell’invito, rivolto alla “cara amica”, a “non fissare i miei occhi”, ad andare “per la tua strada piena d’ortiche”, allontanando da sé il contatto più autentico e innocente con l’altro proprio per consentire “che l’amore duri ancora”, non rischiando di bruciarlo e ridurlo in cenere, come il crepuscolo del passato, mentre gli occhi dell’io lirico sono “già coperti di fiori” – definitivamente separati dagli slanci del sé, quasi ad incorporare il mondo circostante e il mistero imprevedibile dei suoi moti inarrestabili.

Mario Famularo