Guardando bruciare la luce – Davide Cortese

Guardando bruciare la luce - Davide Cortese 1
 
 
Scoccano insieme
la mezzanotte e il mezzogiorno.
È l’ora di un eterno crepuscolo.
Due miei volti si specchiano
nelle ginocchia sbucciate
del demone bambino.
 
 
 
 
Disegna angeli bianchi
il diavolo bambino
poi li accartoccia tutti
gli dà fuoco con l’accendino.
“Solo angeli neri”, dice
guardando bruciare la luce.
 
 
 
 
A chi aspramente lo rimprovera
per qualche suo scherzo atroce
“L’ho imparato dagli uomini”
ogni santa volta dice.
 
(Davide Cortese, Zebù bambino, Terra D’Ulivi, 2021)
 
 

La crudeltà incosciente dell’infanzia, con la sua tenerezza animale, la sua distanza allo stesso tempo dalla consapevolezza del male che nasce dalla ragione e dall’esercizio del bene che consegue alla disciplina lucida dell’attenzione e della cura: attraverso l’immagine della fanciullezza del demonio, Davide Cortese coniuga queste ed altre istanze, rappresentando l’innocenza del male nel suo accadere nel mondo: non sorprende che l’apprendimento della luce, dei conflitti e – in particolar modo – della condotta umana, siano condizionamento principale della “formazione” di questo bambino simbolico.

Immediatamente si annuncia il coniugio di “mezzanotte e mezzogiorno”: l’incipit dal sapore scapigliato, che presenta un “eterno crepuscolo” (è evidente il desiderio di intrecciare luce ed ombra), illumina i “due miei volti” (difficile non pensare a “Dualismo” di Boito) nell’immagine del “demone bambino” che si sbuccia le ginocchia; in un episodio simile a quello vissuto nell’infanzia di ciascuno, si rappresenta l’incidenza della realtà esterna sulla coscienza individuale.

Perfino un’entità determinata come quella del diavolo, in un certo qual modo, è condizionata dal mondo circostante in modo sostanziale, in un gioco di rimandi che sembra non imputare allo stesso demonio la natura essenziale del male, nonostante, come dire, vi sia una “vocazione naturale”; ciò appare con maggiore evidenza nel terzo testo, in cui il piccolo “Zebù”, rimproverato per i suoi “scherzi atroci”, evidenzia di averli imparati “dagli uomini”, o in quello centrale, in cui l’esistenza stessa degli “angeli bianchi”, per confronto, sottolinea le differenze con “il diavolo bambino”, che, per tutta reazione, “li accartoccia tutti / gli dà fuoco con l’accendino … guardando bruciare la luce”.

La metafora di Cortese, nonostante il linguaggio apparentemente dialogico e semplice, nasconde una riflessione sociale sull’etica del particolare, l’ideologia del conformismo e tutto ciò che ne consegue (ci si potrebbe spingere fino ad una critica alla cancel culture): il “diverso”, trattato come tale e definito come appartenente alla genia del male, finisce inevitabilmente per esercitarlo, spinto anche dalla rabbia che lo emargina in tale ruolo; ed è proprio la cattiveria dell’uomo e della società a impedire una possibilità alternativa, “insegnando” il male allo stesso demonio.

Eppure nell’ora dell’ “eterno crepuscolo” le due opposte istanze convivono, come a suggerire, spingendo fino alle estreme conseguenze l’immagine di Cortese, che l’accoglienza e la cura potrebbero commuovere persino la natura del demone bambino, prima che l’indifferenza e l’atrocità degli uomini ne confermino la vocazione “umanissimamente” diabolica.

Mario Famularo