Rime dolorose in saldo alle intercessioni, Marco Sonzogni (Zacinto Editore, 2021).
“Le intercessioni di cui si dà conto in queste pagine sono bave d’aria (Eugenio Montale) sottratte a un tempo di soffocante sofferenza: tentativi di parlare dal cuore del miracolo (Giovanni Giudici) traducendo vicende private in esperienze riconoscibili e condivisibili. Le poesie, legate tra loro da un passaparola e affidate alla mediazione di qualcosa o di qualcuno, si muovono quindi in punta di piedi tra memoria e meraviglia, dolore e dovere, cicatrice e contrappasso, scienza e speranza, fantasia e fede”. Sono queste le parole che possiamo leggere nel risvolto di copertina di Intercessioni, Rime dolorose (2020-2021), raccolta poetica di Marco Sonzogni, edita da Zacinto Edizioni. In copertina, invece, è fotografata la statua di Nostra Signora di Lourdes a Paraparaumu, in Nuova Zelanda. Commissionata dal parroco J.S. Dunn nel 1958, in occasione del centenario dell’apparizione della Vergine Maria a Lourdes, è opera dell’artista olandese Martin Roestenberg. Alta 14 metri, è una delle statue più grandi al mondo nel suo genere. In epigrafe, poi, il libro ha i versi di Franco Loi, che scrive in dialetto milanese: “disperdersi nel patire, / per ritornare quel fischio della memoria, / che la pazienza ha risparmiato nel giorno”.
Cesura
È già mattino. Non ho chiuso
occhio — la colpa è un refuso.
Lascia la notte come una profezia
questo merlo screziato di bianco,
e ho deciso di chiamarlo Geremia:
«Poiché ristorerò chi è stanco» —
leggo alla prima luce nella Bibbia —
«e sazierò coloro che languono».
È un volo mattutino il perdono.
Cesura: quel luogo ritmico della metrica classica che cade nel verso alla fine di una parola e, normalmente, corrisponde ad una pausa sintattica. La colpa, invece, è un refuso, dal latino refusum, termine che rimanda all’errore tipografico causato da uno scambio dei movimenti delle dita durante la battitura. È, questa poesia, la confessione di una notte in bianco, che si anima nel manto di un merlo, il messaggero spirituale, una guida potente da invocare, perché aiuta a comprendere il nostro scopo di vita e a riflettere su come ci stiamo comportando per adempiere a ciò che siamo chiamati a compiere. Billy Collins direbbe “Ma ecco il primo uccello che consegna il suo canto, / ed ecco il motivo del mio essere in piedi: / per catturare la canzone di tre note di quell’uccello/ e aspettare ora assieme a lui una risposta”. Ma Sonzogni non si limita ad attribuire all’animaletto il suo valore simbolico abituale; ne aggiunge un altro, quello biblico, lo vuole profeta. Come Geremia, il merlo ristora dai postumi dell’insonnia e dallo scoramento. Perché è un volo mattutino il perdono: l’epilogo, flessibile al senso di colpa, giunge improvvisamente, nel volo di una notte screziata di bianco che si presta a “fare spazio” alla prima luce del mattino. Qui la cesura, qui quella pausa sintattica (e morale, e spirituale), qui una “bava d’aria”.
Sede vacante
Ha ragione Billy Collins:
ci sono sedie su cui non siederà nessuno —
sedi deputate a contemplare uno ad uno
fiori e alberi, viali e colli —
e chi le ha messe immaginava
coppie — due qui, due là: doppia visione
che spesso sussiste soltanto in intenzione — ;
di provarle non si premurava.
Non è così che la vita si declina?
Pianificare senza sosta tutto ciò che manca —
e dargli forma e nome: sedile oppure panca
oppure sgabello oppure panchina —
trascurando però la sostanza:
siamo fatti della stessa materia di una sedia
che come noi consuma il morso dell’inedia,
sola e pensosa in una stanza.
In Sede vacante “qualcosa o qualcuno” – Sonzogni sembra richiamare un’entità preposta – ha immaginato, e poi creato, una visione duale della realtà circostante (fiori e alberi, viali e colli), un viaggio da declinare al plurale. In queste parole, che trasudano la solitudine dell’essere uno, possiamo cogliere un duplice dissenso: il primo, nei confronti del preponente, nel non aver avuto cura di “collaudare i posti a sedere”. Non tanto la sede vacante, quanto, piuttosto, la sede del singolo, deputata (e destinata) a contemplare il doppio uno ad uno. Il secondo, verso quell’inclinazione, tipicamente umana, del dare forma e nome a ciò che manca (sedile oppure panca/ oppure sgabello oppure panchina), trascurandone la sostanza, la “pienezza” effettiva dello spazio che ci accompagna; che rischia così di rivelarsi “vuoto”, mancanza. Siamo spiazzati nel finale da una confusione tra le parti, il verso siamo fatti della stessa materia di una sedia – di shakespeariana memoria – affievolisce il divario, materiale e spirituale, tra il passeggero o soggetto posto e il posto a sedere. Rea di questa commistione l’inedia, il deperimento, la fame. La sedia, così personificata, sola e pensosa, non può non ricordare Petrarca e uno dei suoi celebri sonetti.
Il messaggio del libro si condensa, in particolare, in alcune poesie-manifesto. Quella che segue contiene e spiega, con efficacia che non richiede commento, il titolo della raccolta.
Mariangela Maio
Nostalgia
Si snoda in paese
la processione del Venerdì
Santo. A più riprese
mi sfilo a lato del silenzio,
lascio mani tese
per dire: «Ci sono anch’io».
Verranno altre offese,
e ci saranno più no che sì.
Tante scuse spese
in pegno alle risoluzioni.
Rime dolorose
in saldo alle intercessioni.