Ci sono due momenti festanti per i sensi nella parabola di Giorgio Caproni (1912-1990), prima dei rovelli sull’assenza di Dio, della realtà, della solitudine. Uno è all’esordio, sui vent’anni, uno è ne Il seme del piangere, dove il maestro che si vergognava d’essere poeta e lo nascondeva al portinaio, celebra la freschezza della madre giovane, dove il padre piangente è quasi una comparsa. Vero che anche qui, a un certo punto c’è l’annuncio del trauma della guerra (Caproni fu partigiano e poi critico nei giornali dell’Italia liberata). Ma è un sottofondo, Il seme del piangere è tutto per la fina, la popolare, la ricamatrice Annina, per il suo La raccolta matura in otto lunghi anni. Spesi bene. Era una raccolta promessa a Vanni Scheiwiller, e poi pubblicata altrove, racconta Giorgio Caproni, ma Scheiwiller lo perdonò. Entrano di straforo anche Ferruccio Ulivi e Carlo Betocchi.
Per Giacomo Debenedetti, la raccolta era il più grande avvenimento nella poesia di quegli anni (’59). Grande perché epico diventa il personaggio, una figura di donna giovane indimenticabile. Il pianto del titolo (dantesco) è un pianto della mente.
Preghiera
E allora chi avrebbe detto
ch’era già minacciata?
Stringendosi nello scialletto
scarlatto, ventilata
passava odorando di mare
nel fresco suo sgonnellare.
Livorno le si apriva
tutta, vezzeggiativa:
Livorno tutta invenzione
nel sussurrare il suo nome.
Prendeva a passo svelto,
dritta, per la via Palestro,
e chi più di lei viva,
allora, in tant’aria nativa?
Livorno popolare
correva con lei a lavorare.
Né ombra né sospetto
era allora nel petto.
La ricamatrice
Com’era acuto l’ago
e agile e fine l’estro!
Raccolta entro quel vago
bianco odore di fresco
lino, oh il ricamare
abile come la spuma
trasparente del mare.
Nel sole era il cantare,
candido, d’un canarino.
Vedevi il capo chino
(e acre) strappare
coi denti la gugliataz
nuova, per ricominciare.
Livorno tutto intorno
com’era ventilata!
Come sapeva di mare
sapendo il suo lavorare!