Michele Paoletti Intervista Francesco Sassetto
Francesco Sassetto si è laureato in Lettere nel presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia con una tesi sul commento trecentesco di Francesco da Buti alla Commedia dantesca, pubblicata nel 1993 dall’editore Il Cardo di Venezia con il titolo La biblioteca di Francesco da Buti interprete di Dante. Ha collaborato in qualità di cultore della materia alla cattedra di Filologia Dantesca ed ha conseguito nel 1998 il titolo di dottore di ricerca in “Filologia e Tecniche dell’Interpretazione”. Insegna Lettere presso il C.t.p. (Centro territoriale per l’educazione in età adulta) di Mestre. Suoi testi sono presenti in numerose antologie e riviste ed ha pubblicato le raccolte di poesia: Da solo e in silenzio (Milano, Montedit, 2004) con prefazione di Bruno Rosada, Ad un casello impreciso (Padova, Valentina Editrice, 2010) con prefazione di Stefano Valentini, Background (Milano, Dotcom Press-Le Voci della Luna, 2012) con prefazione di Fabio Franzin, Stranieri (Padova, Valentina Editrice, 2017), con prefazione di Stefano Valentini, Xe sta trovarse (Samuele Editore, Fanna, 2017, in dialetto veneziano), con prefazione di Alessandro Canzian.
Come nascono le tue poesie?
Mah, credo che scaturiscano da un’osservazione e una riflessione continua, quotidiana, su ciò che accade intorno a me e dentro di me. Da qui l’esigenza successiva di trasferire un pensiero, un’esperienza, un’emozione sulla carta, in versi. Quindi, a rigore, tutta la poesia ha un fondo, un humus “autobiografico” perché parte da chi la scrive, dal suo punto di vista, dal suo vissuto. Sono sempre stato affascinato dalla poesia perché si fonda sulla “parola”, quella parola capace di comunicare, di svelare, commuovere ed emozionare il lettore, di ridestarlo dal torpore consueto della mente e dell’anima, di essere un pugno allo stomaco. O un bacio sulla bocca.
Ed il “poeta”, proprio perché consapevole di lavorare con un numero comunque limitato di vocaboli, dà vita ad una risemantizzazione di ogni termine, riscoprendone e rifondandone ogni volta la capacità di penetrazione emotiva, di persuasività che esso esercita o dovrebbe esercitare sul lettore, influenzandone stati d’animo, sentimenti, valori e, credo, idee e ideali, insomma, la sua visione del mondo.
E che egli assuma come proprio “tema” il mondo del lavoro, le problematiche legate al fenomeno dell’immigrazione, l’amore e il rapporto di coppia, la dimensione del ricordo e del passato o le tragedie e le ingiustizie di un presente sempre più cupo, violento e degradato, che sia poesia cosiddetta “civile” o esistenziale o amorosa, poco importa. Importa la centralità della parola che mostra, svela e denuda la realtà, qualunque essa sia. E, nel farla vedere così com’è, spesso in tutta la sua disumanità e miseria – come nelle inedite Mani di rosa e Ufficio postale qui presentate – innesca nel lettore un processo di consapevolezza, un desiderio di cambiamento, di re-azione alla generale anestesia della sensibilità, fa scattare il sogno possibile di un mutamento, individuale o collettivo. Su di un piano “pratico” devo dire che scrivo spesso, o meglio, butto giù abbozzi quando viaggio in treno, mentre leggo o ascolto musica. Poi, soprattutto la sera, se non sono troppo stanco e non ho “caterve” di compiti da correggere, mi metto a tavolino cercando di dare un ordine a fogli e foglietti, sono lento e metodico di natura per cui lavoro su un testo a lungo, tornandoci sopra molte volte, correggendo, modificando, soprattutto eliminando (procedo sempre per sottrazione, per giungere ad un testo il più possibile incisivo ed efficace), un lavoro appassionante ma attraversato da mille dubbi e insoddisfazioni. Cerco l’espressione migliore, il ritmo “giusto”, la parola che non viene… E fumo troppe sigarette.
Tu sei un insegnante di lettere. Nonostante i rigidi programmi, riesci a proporre ai tuoi studenti qualche poeta contemporaneo o, comunque, qualche autore che ami particolarmente?
Faccio l’insegnante di italiano da ventisette anni. Venti nella Scuola media e superiore e, ora, da sette, presso il Ctp di Mestre, il Centro dove si insegna la lingua italiana agli immigrati e li si prepara a sostenere l’Esame di Terza Media, un lavoro difficile e faticoso, ma che mi consente di vivere quotidianamente la realtà dell’immigrazione, in tutta la sua complessità e drammaticità. Da questa esperienza sono nate varie poesie della mia raccolta Stranieri (Valentina Editrice, 2017). É un lavoro che mi piace, malgrado sia sempre più stressante e per i tagli ministeriali e per il rapido e radicale degrado di una società che sta cancellando, di fatto, l’idea stessa di cultura e di conoscenza. Tuttavia, malgrado le difficoltà, le fatiche, lo stipendio sempre più magro, è un mestiere che mi riserva ancora momenti di grande intensità e verità umana. Proporre un’educazione alla poesia è assai arduo, almeno per due ragioni. Il poeta è avvertito in modo falso e retorico (e parte di responsabilità va proprio alla scuola stessa che ha imposto, per decenni, “canoni” obbligatori di autori da mandare giù a memoria), percepito come uno scemo che si diletta di astrattezze romantiche o pessimismi cosmici, lontano anni luce dalla realtà presente. Dall’altro, i giovani faticano molto ad apprezzare, gustare la parola, la metafora, l’aspetto polisemico del testo poetico li confonde e li disturba, sono abituati ad una comunicazione veloce, rapidamente fruibile ed eliminabile, abbagliati e intontiti da un caleidoscopio di immagini in continuo movimento. Non mancano ragazzi affascinati dalla poesia, ma sono pochi. Tuttavia vi sono anche segnali positivi, che fanno ben sperare. Quando viene qualche autore contemporaneo a leggere poesia in classe (io stesso vado talvolta a leggere poesie in altri Istituti) o qualche compagno propone un testo, l’attenzione e l’interesse si destano, i ragazzi ascoltano con attenzione, pongono domande, hanno molta curiosità, sono contenti dell’esperienza. Perché, credo, hanno “fame di realtà”, di vedere e sentire un “poeta” in carne e ossa, di riflettere, attraverso la poesia, su temi e problemi della contemporaneità, del mondo in cui vivono spesso annaspando. Hanno un enorme bisogno di essere ascoltati, di pensare, farsi un’opinione, al di là di ogni moda e modello. Lo scrittore, la poesia, allora, possono diventare un punto di riferimento, uno stimolo per imparare il confronto, la riflessione.
Recentemente abbiamo parlato della tua scelta di utilizzare la lingua italiana come “strumento” per rappresentare una maggiore oggettività espressiva e usare, invece, il dialetto come mezzo dell’emotività.
Io ho sempre parlato e scritto indifferentemente in italiano e in veneziano, e amo il dialetto veneziano. In poesia può essere un formidabile strumento espressivo perché è la lingua più vera, schietta, quella del “pappa” e del “dindi”, per dirla con Dante, una lingua arcaica e viscerale. Ho sempre usato il dialetto per esprimere la realtà più intima, lo smarrimento, le domande assidue sul senso – o l’assenza di senso – dell’esistenza. L’italiano è la lingua del discorso, della razionalità, il dialetto sgorga dal profondo, è la lingua dell’anima. L’amico Fabio Frazin sostiene che è il dialetto “che viene a cercarti”, mentre l’italiano lo cerchi tu, e credo abbia ragione. Ritengo che il dialetto possa essere uno strumento molto efficace, di vigorosa risonanza emotiva perché consente un dettato poetico ora crudo e roco, ora dolce e melodico. Come pure favorisce una discorsività colloquiale e dimessa, da sermo humilis (perché questo è il dialetto) che ho adottato nella mio piccolo canzoniere amoroso Xe sta trovarse, proprio ad evitare enfasi e retorica, cercando di rendere il senso profondo di quell’incontro attraverso vocaboli e metafore tipicamente dialettali come, ad esempio, quella della bricola od espressioni come “te strenzo co i brassi” che non è “ti abbraccio”.
Tuttavia ora, come appare da queste poesie inedite, ho bisogno dell’italiano. Perché sento l’esigenza di una maggiore “oggettività”, non un distacco, ma la ricerca di un discorso che traduca in versi un pensiero, una riflessione, un’analisi della realtà presente e personale che non esclude affatto l’emotività e la passione (ci mancherebbe!) ma non “nasca” da questi sentimenti (casomai, spero, vi arrivi), bensì da una ricerca di chiarezza e precisione concettuale. Questo mi è più difficile perché bisogna trovare la parola esatta, nitida, evitando ogni termine abusato, banale od impreciso. L’italiano ormai è una lingua sempre più influenzata, dal punto di vista strutturale e lessicale, dal linguaggio massmediatico e da quello delle tecnologie informatiche, rapido ma sempre più povero ed omologato. Detesto, inoltre, gli sperimentalismi linguistici, spesso oscuri, velleitari e modaioli. La sfida è cercare e costruire il proprio vocabolario, fondere, come tu hai fatto benissimo nel tuo Breve inventario di un’assenza, precisione e densità, concretezza vigorosa e allusività metaforica. Spero di essere sulla buona strada.
La tua ultima raccolta Xe sta trovarse (É stato incontrarsi), pubblicata nel 2017 da Samuele Editore è composta da sette poesie di “amore maturo”, come le definisce Alessandro Canzian nella prefazione. Da lettore, quali sono le caratteristiche che cerchi in una poesia d’amore? E da scrittore, come affronti la composizione di un testo d’amore?
Nella poesia amorosa, “genere” arduo da praticare, cerco di capire se l’autore mi comunica o meno cos’è o cos’è stato per lui quell’amore, se me lo racconta e me lo spiega, nelle sue gioie e nelle difficoltà, nei momenti di sconforto e di sole. Insomma, per me è importante trovare un pensiero forte sull’amore, qualunque esso sia. In veneziano non si dice “ti amo” ma “te vogio ben”, allora si tratta di comprendere quel “bene”, cosa contiene quel termine. Per me è stato il desiderio, anche a 50 anni, di costruire una relazione fondata sulla conoscenza, la condivisione, la disponibilità a “mettere in secondo piano” i propri bisogni a vantaggio di quelli dell’altro. Aiutarsi vicendevolmente, camminare insieme. Con tutte le difficoltà, le fatiche, la pazienza che tale edificazione comporta, con gli inevitabili litigi e gli abbracci, i sorrisi. Andare, insomma, tra basi e barufe. Non mi interessano i versi dedicati a scenette erotiche fini a se stesse, spesso banali e stereotipate. E nemmeno i versi da “Baci Perugina”. Le poesie di Francesco Sole possono andare bene ai giovanissimi. E io non sono più un ragazzo.
In Xe sta trovarse mi ha colpito molto un passaggio di cui riporto la traduzione: “non scrivi ‘ti amo’ nemmeno sul frontespizio / dei libri che compri per me […] // Tu scrivi sui fogli solo il mio nome / e una data, il mio nome come un pezzo / di pietra piantata profonda dentro la terra / a segnare che un posto esiste ed è / proprio là […]”. Amare è dunque dare il nome alla persona amata, sentire il peso che posa sulla terra. Amore come presenza estremamente fisica, concreta.
Si. Il rapporto d’amore credo sia molto fisico, in tutti i sensi. Essere accanto non solo con il corpo ma soprattutto con la mente e il cuore, saper ascoltare e accettare, o meglio acquisire, l’altro, con tutte le sue diversità, i suoi difetti. L’amore è impastato di gesti e cose concrete, anche pratiche e materiali. Non è affatto facile, ripeto, ma vale la pena tentare, porsi in questa prospettiva che comporta il sacrificio, la rinuncia, il compromesso, ma ti rende una persona intera e compiuta. Eppure oggi l’essere soli sembra quasi un “valore”. Non è forse un caso che il termine single circoli frequentemente, ad indicare spesso una scelta libera di vita. E può ben esserlo. Tuttavia, tradotto, significa “solo”. E la solitudine non è la condizione naturale dell’uomo (se così fosse saremmo circondati da persone sorridenti ed appagate, ma non mi pare). Ci frenano o ci fermano del tutto il dubbio, la paura, la scarsa disponibilità a dare ad un’altra persona “le chiavi di casa tua”. Perché possa diventare “casa nostra”.
Tra gli inediti che presentiamo ce n’è uno, Sarà questa pioggia lenta, che mi ha riportato alla mente un testo contenuto in Xe sta trovarse, É tutta questa pioggia (Xe tuta ‘sta piòva). L’acqua, essendo tu di Venezia, credo sia l’elemento a cui sei più legato, ma questo tipo di “acqua verticale” nei tuoi testi rappresenta una minaccia, un destino che incombe, la perdita di riferimenti.
Io sono nato e vissuto in mezzo all’acqua, l’acqua della laguna, delle barene, dei canali che si intrecciano in un dedalo enigmatico, ed è naturale che essa ritorni di frequente nelle mie poesie. L’acqua, per me, è una grande metafora. L’acqua alta che, a Venezia, sommerge e travolge ogni cosa e che rinvia, con il pensiero, all’acqua del mare, ai veri annegati, le tragedie del nostro tempo. Ma l’acqua di laguna è anche il pigro flusso che scivola attraverso i canali. É un’acqua che va e ritorna, sempre diversa, sempre la stessa, in un moto lento, misterioso e affascinante. Anche la pioggia, l’acqua verticale ricorre di frequente nei miei testi, è vero. La pioggia lieve che vela, annebbia e trasmette un senso di immobilità, di malinconia. O lo scroscio del temporale improvviso che colpisce le case e spazza le strade, trascinando ogni cosa. Una minaccia sì, un pericolo imprevedibile. Un altro mistero che ci sorprende tanto vulnerabili e impotenti.
Mani di rosa
Le ragazze cinesi stanno là, notte e giorno,
chiuse nel semibuio delle camerette acri
d’oli e incensi profumati, prigioniere
di un congegno elementare di mercato,
obbedienti ai cenni del gestore, il burattinaio
padre padrone.
Le ragazze accarezzano lentamente la pelle
del pagante, con movimenti sapienti
e indifferenti, con cortesia ancestrale,
sorridono dolcemente sfiorando gli occhi
del consumatore ad intuire il consenso,
misurare il grado di appagamento.
Matteo dice che nel regno dei cieli loro
andranno avanti, intanto annegano
le mani sottili nell’inferno del denaro
e degli umori nauseabondi del cliente.
Il cielo sta fuori, in alto,
e non dice niente.
Ufficio postale
All’ufficio postale si armeggia tutti
col postamat, aggeggio infernale, il
codice da digitare, un vecchio impreca
allo sportello ‘non riesco, non capisco,
il numero l’ho dimenticato’, la fila
s’allunga, s’ingrossa, aspetta sbuffando
ferma in piedi che il vecchio si levi,
il display segna il numero otto e dietro
sono diciassette. La folla comincia
ad inveire, rabbiosa, la colpa è quel
pensionato, un ragazzotto gli grida
addosso, un tumulto, una sollevazione
popolare, è tutta gente che deve lavorare
e ogni volta è uguale, il vecchio trema,
si allontana barcollando, gli occhi bassi
velati di vergogna e di dolore.
Si tira un sospiro di sollievo, era ora,
si dice quasi in coro. Si consuma stamane
all’ufficio postale l’odio normale,
il nostro innocente quotidiano male.
Sarà questa pioggia lenta
che vela gli occhi e rallenta il tempo,
sarà questo dover vedere cose
già viste, sapere ogni passo da dover
fare ancora, andare senza passione
nella stessa direzione, che stanca,
che sfianca, lasciare ogni mattina
il tuo calore in cambio di un’assurda
replicazione di gesti e di parole,
durare in fatiche senza senso
in questo quotidiano galleggiamento.
Senza più aspettare un segnale di terra
o di cielo, un lampo di sole nel cieco
vagare come oranti reiteranti
salmi e rosari da sgranare, senza
più domandare niente agli umani
né a un dio probabilmente amareggiato
di averci amato tanto inutilmente.