Filottete ovvero I vuoti ancora da sfamare – Grazia Procino


Filottete ovvero I vuoti ancora da sfamare, Grazia Procino (PeQuod, 2023)

Nel Canto V dell’Inferno Dante esplicita quale sia il maggior dolore, quello cioè di ricordarsi del tempo felice nella sventura. Proprio l’assenza della gioia, della salute, di una serenità d’animo costituisce l’elemento dominante di Filottete ovvero I vuoti ancora da sfamare, silloge che la poetessa pugliese Grazia Procino propone per PeQuod portando a piena maturazione un percorso introspettivo “in dialogo” con i miti d’ogni tempo per arrivare ai nostri giorni. Nelle pagine che compongono la raccolta di versi siamo chiamati a osservare, percepire, vivere un dolore straniante, alienante, intenso: il dolore fisico che ci rammenta il grado di importanza della salute senza la quale tutto è niente ma anche la mancanza di un amore che conduce al disincanto e alla tregenda del cuore, poco importa se chi compie un pellegrinaggio nella sofferenza è Filottete, Priamo, Calipso o l’uomo d’oggi. I sentimenti parlano una lingua comune e l’antichità ci ha insegnato che essi attraversano il tempo manifestandosi e rinnovandosi costantemente.

Procino offre una convincente complessità di controcanti, di interazioni tra dimensioni temporo-spaziali in cui a emergere è la solitudine, che se per Leopardi agisce come una lente d’ingrandimento amplificando l’angoscia in quanti ne vivono il lato di isolamento, nel libro in esame assume le sembianze di una Gorgone moderna, pronta a sfoderare gli artigli di fronte alla preda reietta e derisa. Così, di fronte a una persona la cui pena è nella malattia fisica (una morte in vita), l’assenza di amicizia o di amore la espone a un ulteriore dramma: l’allontanamento che prova Filottete, praticato da Odisseo.

Dalla conoscenza all’ambito onirico, dalla visione all’esperienza pratica viviamo nei versi esplicitati e resi con un registro raffinato ed elegante una percussiva descensus ad inferos, forma catartica per l’essere umano. Riscoprire sé stessi, assumere su di sé la «fatica di rinascere» (come si legge nei versi in esergo), raggiungere di fronte al pascoliano «atomo opaco del Dolore» un compromesso equo e intriso di coraggio, tornare ad abitare e accogliere la parola, pervenire a una piena acquisizione delle proprie volontà ci conducono a diventare migliori purché, ci confida Procino, si trasformi in realtà «la promessa di non smarrirmi», nella consapevolezza di essere «caduchi, non al centro dell’universo» e che «la scrittura non mi ha guarito». C’è una reductio di peso e di autorità del poeta e dell’uomo in generale in questa silloge, con qualche eco calviniana: «Pensare ‘sono qui’ mi basta» è già una conquista diretta a riempire i «vuoti ancora da sfamare». Riprendendo il Cucchi del «male delle cose», si arriva alla considerazione che proprio le cose è necessario abitarle, arrivarvi al cuore per cogliere tutta la storia dell’uomo e così concepire o almeno tentare di comprendere la motivazione sottesa alla sua venuta al mondo.

Federico Migliorati

 
 
 
 
Filottete
 
È proprio vero che la malattia
fa paura. Sono stato confinato a Lesmo
solo. da quando il serpente custode del tempio di Crise
lasciò la sua impronta sul mio piede.
Non ho nessun essere umano a cui confidare le mie pene.
Parlo con me stesso e mi faccio compagnia.
È l’unica che non mi ha, finora, tradito.
Osservo il dilagare della ferita sul piede
e mi fa male il cuore
e mi si spappola il cervello.
 
 
 
 
 
 
Anche se mi esercito a tradurre
l’approdo al dolore
mi sfugge o
io mi allontano, risoluta.
Vorrei catturare l’angelo di luce
e farlo durare
accendere bellezza
mangiare per le strade assolate
con il mare addormentarmi
oppure parlarci
accogliere le voci spoglie:
io vado in cerca dell’umano
tra voli inceppati e brulicare di sogni.
 
 
 
 
 
 
Potete e fragile è l’errare della parola
intorno all’essere.
Resta muta,
sottratta
al sopraggiungere ozioso del tempo