Farràgine, Marco Amore (Samuele Editore 2019, collana Scilla, prefazione di Giovanna Frene)
Liberare la poesia dalla schiavitù del Senso, è questo lo scopo di Farràgine. L’autore, Marco Amore, risale all’ossatura della poesia: la parola, espressione di emozioni, di colori, di immagini, di suggestioni, ma soprattutto specchio del poeta. Un animo, quello dell’autore di Farràgine, lontano da falsi moralismi, da risposte pretenziose, da filosofie artificiose, attento a “non confondere l’inchiostro con la virtù” come direbbe Baudelaire; un animo che ha come unica compagna la bellezza del verso.
È per questo che è all’inizio del libro, quando il foglio bianco intimidisce la maturazione delle parole e minaccia la fioritura del verso, che si scorge il momento più malinconico dell’autore “la mia anima quale triste, mistica parola interpreta?“. La risposta è in fondo a un bicchiere di Gin “un sorso ed è fatta“; la parola è maturata, il verso fiorito, “s’inauguri il viaggio“.
Un viaggio verso mete già visitate da illustri predecessori – l’Amore, la politica, la moralità, i vizi e le ipocrisie dell’uomo – ma che adesso hanno conosciuto un turista d’eccezione che non vi cerca risposte o verità di alcun tipo “anche la verità mi ha mentito“, “smettetela di sfogare le vostre frustrazioni sulla metafisica: la verità è un cannocchiale che ha bisogno di una mentalità aperta a ogni evenienza“.
Alla fine del viaggio – senza risposte in tasca perché “l’epoca in cui esigevi risposte da te stesso è trascorsa senza che ti ponessi neanche una domanda” – l’autore sembra ritornare in quella solitudine, o forse vuoto, scorto all’inizio. Probabilmente il Senso risiede proprio in questo vuoto e la Verità nella rinuncia di dimostrare di conoscere certezze che in realtà non si hanno. Per questo il poeta sbeffeggia, a tratti, coloro che paventano, o hanno paventato, simili conoscenze. Marco Amore vuole rimanere se stesso, scrivere una poesia che lo rappresenti, una poesia pura, autentica, che non salga in cattedra perché “non esiste alcuna lezione da imparare“. Dimostra al lettore di non aver bisogno di dimostrare nulla, se non la potenza delle parole e la bellezza dei versi.
Parole e versi capaci di squarciare quel foglio bianco tanto temuto all’inizio e che ora è vinto per sempre, macchiato dall’inchiostro resistente della poesia. Una poesia che percorre i luoghi remoti della mitologia e della storia – dall’oblio del fiume Lete, alla città della Lidia, Colofone, fino all’antica (quanto attualmente popolata) regione della Grecia, la Tessaglia – e nella quale il lettore si ritrova catapultato in dimensione e contesti in continua mutazione, a tratti antitetici: dall’atmosfera rarefatta dei sogni “svegliato da un sonno ipnagogico / spalanco le palpebre / di fronte alla minaccia del sonno“, “un quarto di sigaretta nel posacenere vuoto / quanto la sensazione / di chi sogna / di cadere nel vuoto mentre dorme“, alla desta lucidità delle riflessioni “la politica è scissione“, “la moralità è fondamentale e l’immoralità profetica“; dal silenzio della notte, al fragore del giorno “la notte brindava (cin cin) col giorno“. Questo e molto altro è Farràgine.
Vincenzo Ciervo
Farràgine
whisky che gronda, come colla istantanea o ambra da un fusto
accoltellato, risali la mia gola impavido, come Enea dall’Ade
nasturzi immortali di brandy, grappa, armagnac, vesou, cognac,
rum, cachaça, thibarine, slivoviz, malibù in un cocktail esotico
che io comprenda l’avestico, se occorre
la mia anima quale triste, mistica parola interpreta?
s’inauguri il viaggio: bastimenti, ahi! I Nettunalia son compiuti.
Che meravigliose polene…
un sorso ed è fatta; sono nel fiore degli anni
Tin Tin, fa il bicchierino di gin…
Cin Cin
quanti oboli ho pagato al traghettatore? tuttavia si è rifiutato di recapitarmi sulle opposte, cupe rive dell’Acheronte. Pertanto mi bagnai nel gange. Divieto di balneazione nei profluvi orientali. Ma se sono di aromatico vino da esportazione…
torrenti, fiumi, greti e canali impregnati dal vino delle messe.
E ne sono ebbro
lo Stige fluiva dai suoi occhi, ma fu l’oblio del Lete dei suoi seni a condannarmi. Nell’incavatura tra le cosce | come un fiume questuante d’acque terrestri, che scorre nella rigogliosa valle dell’Eden
lo sfolgorate nome era Shakti , e Shakti era Kali, e Kali era
durga, e durga era Shiva
l’intimità della donna era Iblis e Yama e ganesha e Nezha
e le sue dita pudiche erano Inari, Raijin, Baldr, Vali,
Malsumis, Wawalag, Borr e Bomazi
la sua favella era Bragi e intendeva ogni lingua e ogni
lingua dei segni del mondo
mia amata
*
penzola l’arto dalla pacifica branda. Ho il cuore all’inferno e il corpo disteso sulla lana. Il Lete rimbomba tra le sue pallide forme cedevoli? Vellutati? sprimacciati cuscini su cui riposa il corpo di un altro|, e l’Acheronte e il Cocito tra quegli occhi arrossati. La mia donna non è mia. La mia donna è su internet
un buon condottiero non è bellicoso, Lao tzu? un buon combattente non è iracondo? Allora son degno dell’aggettivo «pessimo», perché contesi e fui iracondo, istupidito da un’effimera attrazione. Milton, narra del mio paradiso perduto
la dizione che ti ha concesso Natura servirà il mio scopo
o marcirà con la torba che ingombra le fauci del tuo sonno
basta ammennicoli: parole e parole e parole
ma tutti puntate indici a casaccio
i tre giorni sono trascorsi, ma giaccio ancora, inerme, nel
gelido sepolcro
è la mia bucolica branda… il mio sepolcro… la mia coscienza
Farràgine
Fuori le fronde degli alberi aggrovigliate su se stesse da un
vento ferino d’estate
(le foglie svolazzanti da parte a parte realizzavano vortici
vivaci, variopinti)
Accompagnata da un adulto
che interrogava i declivi durante uno spettacolo tv,
la ragazza bruna con gli occhi in orbita
per la luna piena che seguiva lo stesso itinerario
Allora la ragazza bruna con gli occhi in orbita
non si poteva cogliere
dentro l’urlo di una bambina supina con le mani esili
protese a difendersi la testa
Il suo grido era il patatrac abbastanza chiaro
di una brocca in frantumi
Per cui tre volte al mese le accadeva di essere in pigiama. La luna che maculava gli alberi le friniva ininterrottamente tra le trecce
*
ore ventitré in punto. Manca poco a mezzanotte e tre quarti
Al centro del suo ufficio legale appese il quadro con le ninfe
di Jan Vermeer: quelle intorno a diana, col manto in tinta
unita, sembravano sorelle accapigliate
«Testa o croce», disse la sorella maggiore
Non erano convinte di niente né pronte a farla finita
ma purtroppo il fucile
regalò una martire alla notte
senza che nessuno disse addio
Insonnia e Winston Blue
C’è quest’ombra che attraversa il cuscino
di sera
una falena che affusola dita flessibili
i piedi in un paio di scarpe chermes
come risate in diretta
on air
*
svegliato da un sonno ipnagogico
spalanco le palpebre
di fronte alla minaccia del sonno
ogni sera il medesimo quesito, e ogni sera
le falene con le ali ai piedi
si prendono gioco di me
(beltà che si
sfama
calpestando scalza
muliebri forme
di verde
all’ombra di un ginepro
che serpeggia informe
all’ultimo raggio di sole
dove germoglia la speme)
i colori della vanità sono tenui
come sfumature pastello,
ma basta prendere appunti…
(enuncia tutte le montagne eccetera. Di’ che i segreti del mondo riposano nei luoghi remoti, dove la luce penetra dalla porta sul retro)
un quarto di sigaretta nel posacenere vuoto
quanto la sensazione
di chi sogna
di cadere nel vuoto mentre dorme