Eros e Psiche: dal mito alla fiaba, storia di una passione che si compie nello sguardo

Tra i passi e i titoli più noti della letteratura classica, si colloca l’antica fiaba di Amore e Psiche, concepita come digressione all’interno di uno dei più antichi romanzi della tradizione letteraria occidentale. La vicenda viene narrata nel romanzo latino Le Metamorfosi, noto anche col titolo L’asino d’oro, composto da Apuleio nel II secolo d.C. Tanto l’autore quanto il protagonista dell’opera sono originari di Madauro, una città della Numidia (attuale Algeria), ed entrambi vivono una vita rocambolesca, spesso alle prese con il mistero della magia. Apuleio vive in un tempo in cui l’impero romano è ormai la più grande realtà dell’occidente, e si estende da un confine all’altro di quello che all’epoca era considerato il mondo intero. Gli dèi della tradizione sono il simbolo di un tempo lontano, e permangono nell’identità culturale del mondo classico, ma sono ormai privi di ogni connessione con il culto e la fede. Nuovi riti e nuove divinità hanno conquistato i popoli, mentre il pantheon classico persiste nell’immaginario collettivo come elemento identitario, a volte in conflitto con i nuovi riti, altre in totale armonia o indifferenza. In questo clima, anche i miti vengono riletti, rivisitati, e talvolta persino inventati, accogliendo suggestioni e tradizioni orali esotiche. È questo che accade nella favola di Amore e Psiche, dove la tradizione berbera contamina quella classica e dà vita a una delle storie più amate di sempre. Esempio di racconto nel racconto, la bella fabella si inserisce esattamente al centro del romanzo: occupa, infatti, i libri dal IV al VI e interrompe l’avventura del protagonista innestandosi nella vicenda come una storia che a lui capita di ascoltare mentre, prigioniero in una grotta di briganti, un’anziana donna la racconta a una ragazza, a sua volta vittima di un rapimento. Le Metamorfosi partono, infatti, dal viaggio di Lucio in Tessaglia, regione della Grecia presentata come luogo di mistero e magie, dove il protagonista, incuriosito e tentato di prendere parte a un incantesimo, si spalma un unguento magico e si trasforma in asino. Con questo nuovo aspetto, pur conservando le facoltà mentali di un uomo, inizia un viaggio ricco di balorde avventure e stravaganti peripezie, molte delle quali narrate ammiccando all’atmosfera licenziosa della fabula Milesia. Solo al termine di varie vicissitudini, dopo aver affrontato un percorso allegorico di purificazione che culmina nel riuscire a trovare delle rose di cui nutrirsi, grazie alla dea Iside, recupera il suo sembiante umano. È, dunque, nel corso di una delle sue peripezie che si trova coinvolto nell’agguato di una banda di briganti, che dopo averlo rapito lo conducono in una grotta sperduta sulle montagne dove è già tenuta prigioniera la bella e giovane Carite, la fanciulla di cui dicevamo poc’anzi, la destinataria, cioè, del racconto di Amore e Psiche. Collocata su un diverso piano narrativo, la vicenda reclama un ruolo privilegiato rispetto alle pur numerose e avventurose digressioni che vivacizzano la di per sé lineare struttura narrativa del romanzo, tanto da costituire una sorta di mini-riproduzione dello stesso, animata dalla medesima finalità allegorica. Il racconto, che sembra condensare molti degli spunti destinati a essere ripresi nelle più celebri fiabe dell’Occidente, da Cenerentola a La bella e la bestia, da Biancaneve a Pollicino, inizia con il più classico degli esordi: Erant in quadam civitate rex et regina… («C’erano in una città un re e una regina…»; Apul., Met., IV, 28) . Essi avevano tre bellissime figlie, delle quali, tuttavia, la minore sembrava possedere un che di soprannaturale. La sua bellezza, la sua grazia erano tali da indurre chiunque a pensare che si trattasse non solo di una dea ma di Venere in persona, che aveva deciso di lasciare l’Olimpo per assumere sembianze umane e vivere sulla terra. La fanciulla si chiamava Psiche e la fama della sua bellezza raggiunse tutti gli abitanti non solo della sua città, ma anche dei paesi vicini. In centinaia andavano a omaggiarla, celebrandola e onorandola come una dea, e abbandonando i templi realmente consacrati a Venere, che rimanevano invece vuoti in ogni dove. Dopo qualche tempo, però, tanta fama divenne per la fanciulla un problema grave; nessuno, infatti, chiedeva la sua mano, mentre le sorelle erano ormai andate in spose, e nel contempo proprio Venere, informata di quanto venisse provocato da una fanciulla che le sottraeva il culto e le attenzioni, decise di vendicarsi. Intanto, per porre rimedio alle mancate nozze, i genitori di Psiche pensarono di chiedere aiuto all’oracolo, che con un’ambigua profezia decretò che la fanciulla, vestita d’oro e d’argento, venisse portata sulla cima di un monte dove si sarebbe celebrato il suo imeneo, e che tuttavia lo sposo non sarebbe stato di stirpe mortale, ma un malvagio, fiero, vipereo che volando nei cieli con le sue ali opprime e sfianca tutto e tutti, col ferro e col fuoco, uno di cui Giove in persona ha timore, per il quale gli dèi provano terrore e inorridiscono persino le acque infernali e le tenebre dello Stige (IV, 33). Una tale profezia aveva lasciato nello sgomento Psiche e i suoi cari, ma non esisteva alcuna possibilità di sfuggire al proprio fato. Nessuno, tuttavia, avrebbe mai immaginato che la parola profetica nascondesse una verità tanto diversa dall’aspettativa. A sposare Psiche, che dalla cima del monte era stata condotta in una splendida reggia da un delicato spirare di zefiro, sarebbe stato proprio Cupido, a cui la descrizione dell’oracolo, in verità, calzava a pennello. Il giovane dio dell’Amore, infatti, aveva ricevuto dalla madre Venere l’ordine di punire la fanciulla che le aveva strappato il primato della bellezza, con la più ignobile delle sorti, ossia il matrimonio con l’essere più spregevole che esistesse al mondo, ma Cupido, che cedeva facilmente al desiderio, non appena l’aveva vista, se ne era innamorato decidendo di farla sua. La relazione tra Amore e Psiche era nata, però, all’insegna del mistero: una volta entrata nella reggia del dio, la fanciulla infatti era stata accolta e coccolata fino a sera da voci invisibili, e solo dopo il sopraggiungere delle tenebre aveva potuto incontrare il suo sposo, che tuttavia non avrebbe potuto vedere né quella notte né mai, poiché lui stesso le aveva fatto promettere che non avrebbe in nessun caso cercato di guardarlo, se avesse voluto continuare a vivere nel suo amore. Il resto della storia contiene tutti gli elementi tipici della narrazione fiabesca: Psiche, pur avendo giurato obbedienza al patto stretto con il misterioso sposo, lo avrebbe poi infranto dietro i malvagi consigli delle sorelle invidiose, perdendo in un solo gesto ogni beneficio insieme con l’amore di Cupido, e avrebbe dovuto affrontare difficili, impossibili prove pur di ottenere il perdono della crudele e divina suocera, nonché il ritorno dell’amato.

La storia d’amore tra Cupido e Psiche o, se ne consideriamo la valenza allegorica, tra l’amore e l’anima, accogliendo per il termine ψυχή (psyché) il significato più spesso attestato nelle fonti greche, non concede grande spazio alla seduzione. Non è, infatti, di seduzione che si parla quando il desiderio si accende spontaneamente in entrambi coloro che, nel momento stesso in cui rispondono a uno slancio erotico, diventano amanti, senza che nessuno abbia convinto l’altro, il che accade, nel mondo del mito, quando le frecce di Eros/Cupido feriscono, volontariamente o accidentalmente, i soggetti della relazione. E nella vicenda di Eros e Psiche accade proprio questo: il giovane e impulsivo dio dell’amore, disobbedendo al precetto della madre Venere, si era, infatti, ferito da solo con una delle sue frecce, innamorandosi della fanciulla che avrebbe dovuto punire. Il racconto di tutto ciò si colloca nel capitolo 24 del libro V delle Metamorfosi: “Anch’io ho disobbedito agli ordini di mia madre Venere, che ti voleva schiava del desiderio di un uomo meschino e miserando e mi aveva comandato di procurarti un vile matrimonio. E invece proprio io sono volato da te per essere il tuo sposo. Ho agito con troppa leggerezza, lo so bene. Io, il famoso arciere, mi sono ferito da solo e ti ho fatto mia sposa”. Alcune interpretazioni di questo passo teorizzano che Cupido abbia ferito se stesso per errore, accidentalmente, ma l’espressione in lingua originale non autorizza a convincersi di ciò. Anzi, ipse me telo meo percussi («io stesso mi sono ferito con la mia freccia») potrebbe anche indurre a pensare l’esatto contrario, e cioè che il dio si sia procurato da solo la ferita proprio per potersi legare a Psiche, il che ben si concilia con l’affermazione di poco precedente in cui è possibile cogliere nel dio una sorta di pentimento per aver agito con leggerezza. La straordinaria bellezza di Psiche, dunque, ha indotto Cupido a innamorarsi di lei, che, a sua volta, pur avendo vissuto nella paura e nel mistero i primi giorni del suo particolare matrimonio, finisce, a sua volta, per abbandonarsi piacevolmente alle attenzioni dello sposo, che gradisce e desidera sempre di più. Il suo innamoramento, tuttavia, sarebbe giunto al culmine solo più tardi, e cioè quando, spinta dall’invidia delle sorelle, e cercando di vedere il volto del marito, in una maledetta notte avrebbe accostato una lucerna al volto di costui. Lo stato d’ansia per l’atto illecito che stava compiendo, la rottura del vincolo d’amore che con lo sposo aveva stretto, l’avevano talmente agitata da renderne impacciato ogni furtivo movimento, e in questo modo aveva procurato una ferita a Cupido, ustionandolo con l’olio della lucerna, e a se stessa, pungendosi con le sue frecce. Così, in un solo istante, perdeva, almeno in apparenza, l’amore di lui, che si scopriva tradito e bruciante di dolore, e si innamorava perdutamente, bruciando di passione per quella ferita d’amore che si era procurata da sola, pungendosi con la punta della freccia, ma inavvertitamente. In quello stesso istante, finalmente e dolorosamente, il suo desiderio si era compiuto, l’ansia placata, il mistero svelato: aveva visto il volto di Cupido, ne aveva contemplato il corpo, le ali, ne aveva vissuto pienamente lo sguardo, seppur furente di rabbia e delusione. Impossibile distinguere, nella successione incalzante degli istanti decisivi della storia, l’attimo in cui il suo sguardo incontra il volto dell’amato da quello in cui il suo amore divampa in seguito alla ferita, come del resto impossibile resta comprendere quale successione di eventi avesse caratterizzato l’esplodere del desiderio di Cupido. Certa, invece, resta la constatazione che l’innamoramento si attua nello sguardo, attraverso il senso privilegiato della vista che dell’essere amato coglie ogni insondabile incanto. Allora e solo allora, la passione esplode, il desiderio si fa pungente, allora la mente si annebbia e si perde il controllo di sé, come succede, in questa storia, a Eros e a Psiche. Ma quando lo sguardo incontra l’essere desiderato, l’amante si scopre indifeso, in balìa dell’altro, specie quando la relazione nasce tra una creatura umana e una creatura divina, o semidivina. Per riconquistare il proprio ruolo accanto al suo sposo, Psiche si trova costretta ad affrontare molte difficili prove, tanto da sfiorare la morte, dalla quale solo il ritrovato amore di Eros, infine, la salva. La vista dell’essere amato, dunque, rende Psiche consapevole della sua passione, ma le trasmette nel contempo l’inadeguatezza del proprio sentire. In un solo istante scopre la meravigliosa consistenza dell’eros e l’inganno da cui è stata travolta, in una parabola opposta ma complementare alla vicenda di Narciso, che invece nutre di uno sguardo ostinato ma ottuso il proprio desiderio fino al termine della sua stessa vita. Entrambi, Psiche e Narciso, assistono al frantumarsi della propria aspettativa dinanzi alla consapevolezza dello sguardo, quando la vista è finalmente limpida, libera dai fraintendimenti dell’illusione e dell’ombra. In molti episodi mitici caratterizzati dal tema della seduzione è possibile riscontrare la stessa fondamentale esperienza: uno sguardo autentico rivela l’inganno, l’equivoco, l’illusione: allora l’amante sedotto si scopre vittima di una dimensione inesistente, di una immaginazione ingannevole che l’intervento di un dio, una menzogna, una sorta di incantamento, o più semplicemente un equivoco, hanno prodotto nella sua mente.