Equinozio, Stefano Carrai (Industria e Letteratura 2021).
Il verso ha inizio nel sogno, in un sogno di oggetti specifici che ingaggiano con l’allocutario una danza di schianti, di rimandi realistici, di piccole cose ultra-contemporanee appartenenti alla distopia di vecchi immaginari ancora in auge. Comincia così l’ultima opera di Stefano Carrai, Equinozio (Industria e Letteratura 2021), che fa parte della collana Poetica curata da Niccolò Scaffai e Gabriel Del Sarto e che presenta la prefazione di Clelia Martignoni. Se l’interlocutore iniziale è simbiotico con l’io parlante e vagamente trascendente, nella seconda poesia appare interpretato – ma è pur sempre una meta-finzione- da un’estate amata attraverso il ritmo di una canzone melodica che trascina il ricordo all’indietro, perfino a tempi che – per avventura – il lettore può non aver vissuto. D’altronde, “al servomeccanismo della storia/non importa se poi/si continua a frugare in uno specchio”. La strofa si disarticola in versicoli liberi da qualsiasi impaginazione standardizzata che, se talvolta sono in dialogo tra loro per il tramite di un rimema, si ibridano di corsivi, cambiamenti di lingua, slittamenti fonetici e gnoseologici, neologismi e improvvise retrocessioni cronologico-storiche: “estate mia che ormai/guardo con questa faccia da straniero”.
L’individuo -plurimo nella sua soggettività e nella sua fungibilità collettiva – si ritrova “in balìa del temporale” e ha uno scatto, vive una celerità istantanea e folgorante, recupera la propria posa dalla possibilità di caduta, esiste nella compenetrazione delle epoche, degli accadimenti e della loro rielaborazione letteraria. La narrazione sulla traslazione tra fasi temporali si interrompe per riprendere nella pagina successiva, come accade con l’immagine nera che compare nell’alternarsi delle scene di un film. Tornare indietro è un’operazione impossibile e, forse, indesiderabile: è meglio rimanere “zazzeruti per sempre” e “irraggiungibili”. Forse può essere questo il contraltare sostenibile delle “lingue di mare/a cancellare senza fine i nostri/passi sulla battigia”. Una fotografia è frammento memoriale di una vita. Sul retro c’è una dedica che aggancia il presente al passato e racconta, con una morte giovanile, gli anni della droga, dei pantaloni a zampa di elefante, di Che Guevara, del “tanto amore” per un’amica morta di overdose. Sapere che un amico muore significa conservare sempre la stessa frase musicale, “lo stesso riff a strappo sul bicordo” che non fa melodia “ma pianto”. Il ricordo sancisce il ritmo serrato del gioco (trascorso e attuale), della marcatura, dei tempi stretti della giovinezza che è, pur sempre, “la dolce prospettiva”.
Nella doverosa meta-lettura di questi versi emerge la ricerca del ricordo come volizione. Una visione esistenzialistica determina l’atto di non trovare il diario dei ricordi e lascia che si compia una cesura fra tempi, visuali, storie che inseguono l’individuo fino a che sarà in vita: ricordo quindi sono.
Il racconto della politica di un’epoca (personale o collettivo che sia) è composto dal ricordo trasversale di ciò che non si è letto: il “sovversivismo” che lascia solo “tanti piccoli ossari”. “Ma non è mica/soltanto nostalgia/eh c’era la speranza/di fare cielo nuovo e terra nuova” si può replicare quando si viene accusati di “essere in ritardo sui tempi”. Se, oggi, andare coi fiori nei capelli e le bandiere è un atto strano, lo stesso sentimento di ribellione si può travasare in un’attualità ugualmente bisognosa di idealismi, anche se sono “illusioni/proletarie e le smanie libertarie” (talvolta violente, da parte di qualcuno): “io riconosco il fare/meticoloso con cui preparava/le bottiglie incendiarie”.
La terminologia di tanto in tanto vernacolare richiama l’onomatopea e le movenze quotidiane, imprime un aspetto confidenziale al verso incline alla troncatura e frammentato, privo di punteggiatura tranne che per i punti fermi che arrestano la corsa lessematica.
Una prosa introduce un’immagine realistica per aprire il varco alla riflessione sulla dimensione onirica che reinterpreta quella empirica: “La facciata del sogno meglio non varcarla, dietro non c’è che il vetro-cemento del ricostruito”.
La metafora del souvenir di piccole vite del mare chiuse in un barattolo e destinate al cestino per l’olezzo -sgradevole quanto inatteso- è la suggestione più feroce sulle aspettative dell’uomo sulla sua esistenza, sulla possibilità di conservarne piccoli spicchi intatti.
L’estate, come promessa di giovinezza e di leggerezza, si accomiata dall’uomo con una frattura dolorosa. Il linguaggio si costruisce con neologismi, paradossi e sinestesie grondanti di un tetro sarcasmo. Sembra come se si volessero superare le barriere della normalità semantica per giungere in una terra linguistica libera da schemi normativi e incline a una molteplicità ermeneutica possibile proprio nelle locuzioni composte da accostamenti insoliti: “gamberizzati estatica/in quest’alba di marmo e celluloide/fra tanti testimoni inconsapevoli”.
Nella sezione dedicata a La casa di Anna Frank, si agita una ricerca di qualcosa di introvabile che si può ritrovare proprio nella sua impossibilità di essere appresa, compresa, come si evince dall’esergo in cui è citato Vittorio Sereni: “senza trovarla più/ritrovandola sempre”.
Il dolore dei grandi drammi della storia rimane impresso nelle cose, scende nella trama della terra, viene assorbito dall’ambiente e dalla memoria, diventa una sensazione di sottofondo, una competenza comune e quasi involontaria: “tutto quel sangue sceso per il vaglio/del suolo ancora sia/lì”.
La Cattura, come prigionia da parte di un potere superiore, è un dover essere mancato dell’habeas corpus e della coscienza, una condanna alla propria irrimediabile natura umana. Il flusso di storia e storie, eccidi, violenze, terrore, azioni e reazioni si conclude con il potere della memoria che fa di un bambino un futuro aguzzìno.
Con Emblemi, si apre una riflessione sulla mitologematica istintiva dell’uomo, sulla sua capacità di trasfigurazione (“non mi è mai piaciuta l’idea di essere/una cosa sola”), sull’incessante transito della vita sulla vita propria e altrui, sull’agonismo spietato e recidivo che imprime l’idea di un modello etero-imposto alla propria impossibilità definitoria.
In Adagio di lamentazioni, si riscopre come la frattura multipla dell’esistenza si ripropone nel dolore abituale di ogni stagione che cambia, nello sfruttamento del lavoro, nella disumanità della società che congloba le persone ma non le sa (o non le vuole) inglobare. La disperazione appare nei singhiozzi dell’uomo “che cerca furibondo/nel buio/la sua lingua/cadutagli di bocca”. Quell’ “agonia maghrebina” dell’immigrato che si stende sulla panchina a sfiatare (forse in modo impudico ma, certamente, disperato) è il simbolo dell’abiezione comune, del permesso di soggiorno in generale scadenza perfino per “il Cristo ancora a braccia/larghe che stende in spiaggia una tovaglia/ e dice/ molto bella poco caro”.
In Stefanofora, titolo-pastiche che, ironicamente, nasconde una profonda contrizione, ritorna una dimensione personale e affettiva da conservare negli “occhi magazzino” che si conclude con un “esperimento di traduzione e intarsio, con conseguente risemantizzazione”, come specifica l’autore nelle note finali.
A Patrizia Valduga è dedicata una riflessione sul linguaggio poetico da apprezzare nell’etica e nell’estetica del verso in cui è scritta: “col graticcio di spezzature e vuoti/ho cercato di rendere/sintassi e ritmo delle mie ossessioni”. Se “di quell’umile Italia postfascista/c’è poco da rimpiangere”, nel presente (e spesso assente) del nostro Paese -tra morti sul lavoro, bollettini serali del Covid e drammi privati- sembra di non poter essere che genitori del “dolore dei figli”. Eppure, una fotografia immortala la vita prima che lo faccia la morte. È simile a ciò che fa la poesia: censisce quel magma intricato e promiscuo di dati, sensazioni, ricordi, oggetti, soggetti, disguidi, incanti e lamenti, certifica la morte. Poiché, però, viene necessariamente scritta mentre si è in vita, la poesia sigilla il passaggio dell’uomo nell’umanità.
Gisella Blanco
Cattura
Non avevi a essere ebrea
disse
il maresciallo a Frida
Misul quel giorno del quarantaquattro
dentro il commissariato dell’Ardenza
mentre lei lo implorava di lasciarla
tornare da suo padre ch’era anziano
che la mamma era morta
e le sorelle ancora piccoline
non avevi a essere ebrea
le disse.
..
Quanto t’amo mia estate quanto t’amo
non lo sai
estate mia che ormai
guardo con questa faccia da straniero
fuori è inverno
vedi?
la nebbia è nebbia
rain and tears are the same
ora che ti amo fuori tempo massimo…
al servomeccanismo della storia
non importa se poi
si continua a frugare in uno specchio.
..
Mille volte inchiodata sul sedile
reclinato della sopraffazione
guardi sfrontata in macchina durante
il servizio su tratta
delle nigeriane e prostituzione.